Calipso segons Monica Centanni, a «Nemica a Ulisse»
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NEMICA A ULISSE
Teti, la ninfa
Ecuba, la nemica
Calipso, figlia di Teti
Medea, la maga
Dioniso femminamaschio
Clitemnestra, il re
Notte di Hermes
Maria Luna di Efeso
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Calipso, figlia di Teti
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– Vi invidio voi tutte creature di un giorno, voi che sapete la speranza, il ricordo, l’attesa. Invidio la vostra speranza e la vostra attesa, invidio le vostre storie: voi che sapete dire sì.
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Perfetta e immutabile sta in Ogigia, l’isola prima, il paradiso remoto, a cui la morte può approdare soltanto per un breve giorno, in figura di naufrago.
Arriva un uomo, un mortale: privo di tutto, aggrappato alla chiglia della sua nave fatta a pezzi dal mare, approda nell’isola antichissima, dove, da sempre, sta lei, prima figlia di Oceano e di Teti. Calipso è sulla riva e da sempre lo aspetta: ora lo accoglie, lo salva, si prende cura di lui, gli fa ricordare chi è. Gli dà tutto, tutto ciò di cui è capace: cibo per confortare il suo corpo, vesti per coprirsi, una quiete perfetta per riposare dai ricordi della guerra, dagli incubi dei mostri, dal rimpianto dei compagni perduti, dal terrore del mare cattivo.
Silenzi divini, non parole di conforto. Ulisse prende il cibo, le vesti, il silenzio. Prende tutto, avidamente, perché ha bisogno di tutto; prende anche lei perché ha fame, ha sete, ha sonno e crede di amarla. Preso dalla sua storia così unica, dal suo naufragio così suo, Ulisse sa molte cose. Sa che nessuna rotta è uguale a un’altra, che ogni isola è diversa. Ulisse sa molte cose ma non vede che solo da lui Calipso si lascia toccare; non capisce che da sempre era atteso e che, lui solo, ora, è arrivato al paradiso dove non c’è morte e non c’è paura. Ma lui è un mortale, un eroe, e pensa solo la gloria e l’impresa.
Calipso tiene Ulisse in Ogigia, lo trattiene con sé. Eppure, quel mortale è un lusso per lei: nessun difetto da rimediare, nessuna mancanza da guarire. Costa molto Ulisse a Calipso: perché non serve a niente, perché non può darle niente. Non serve alla sua armonia e all’armonia del paradiso: ontani, pioppi e abeti stanno comunque, svettanti e leggeri. Da sola Calipso sta bene: senza Ulisse è, per così dire, felice. Ma lui porta con sé il sapore forte della morte, porta l’evento e la vita. Calipso è la ninfa del desiderio, ma nessuno arriva fino all’isola lontanissima per guardarla e toccarla. Tutti la sognano, la venerano da lontano. E il desiderio distante incanta, attrae, ma distrae dall’isola la potenza elementare di eros. Ma ora il mortale è arrivato, in figura di naufrago e l’isola perfetta e immobile diventa giardino: un giardino chiuso intorno dal mare, un giardino divenuto terrestre, divenuto piacere e delizia. Con lui ontani, pioppi e abeti disegnano una forma, e tutto acquista profumo e colore. E loro due sono dentro, e gli altri sono fuori, lontani. E ha un senso dire dentro e dire fuori: dire tu e dire io, come se fossero parole vere.
Imparano insieme, Ulisse e Calipso, le parole elementari, che nessun altro intende e che tutti credono di sapere. Ma né l’uno né l’altra sanno dire la parola che salva: noi due. Soli in Ogigia: di notte si stendono l’uno accanto all’altra, lui solo, lei sola, nella grotta profonda, che nell’isola è la cosa che più assomiglia a una casa. Dura un istante la percezione della pienezza: un istante che interrompe il tempo fermo di Calipso, il tempo inquieto di Ulisse. Per quell’istante si credono a casa. E poco. E quel tanto che basta per sapere che l’incontro è possibile solo in Ogigia. Come dire sempre, come dire mai. Malvolentieri l’uomo sta accanto alla ninfa, malvolentieri sopporta che la distanza si accorci. E lei non sopporta quell’irrequietudine che svuota il piacere, che lo fa fuggire via, senza che l’attimo duri e sia, perfettamente.
Di giorno Calipso tesse la tela. Lei tesse: non disfa, non trama. Lei costruisce, non inganna. Perfeziona la sua opera, tenace: senza farsi distrarre, fa ciò che sa fare. Tesse il tempo, che duri per sempre, che nulla lo interrompa. E intanto Ulisse sta sulla riva e piange e progetta e trama il ritorno: perché lui sa contare i minuti e le ore, i giorni e le notti; perché ha qualcosa da rimpiangere e da ricordare. Qualcosa che sta altrove e che ha a che fare con il fuoco, con le parole, con gli inganni. Crede di avere tempo, Ulisse, davanti e dietro alle spalle. Crede al ricordo, crede alla speranza. Crede al passato e al futuro: crede al tempo, perché è un mortale. Guarda il mare e i suoi infiniti percorsi e piange, ostinato e rabbioso, perché vorrebbe ancora e sempre tornare. Non sa stare qui, non sa stare ora. Andare e cambiare: Ulisse non sa che farsene di questa immortalità lontana da tutto.
Nell’antro che assomiglia un poco alla casa degli uomini, Calipso sta quieta, impegnata a tessere tele immortali e a cantare canti che placano il dolore della memoria. Lei sa che non c’è un altro luogo in cui potrebbe andare, non c’è sponda a cui ritornare. Conosce il tempo e sorride all’idea che ci sia un passato, che ci sia un futuro. Conosce il mare e ride dell’illusione delle infinite rotte: sa da sempre che le onde cambiano continuamente figura, che nessun ritorno assomiglia mai al ricordo e alla speranza. Lei sa che da qualche parte bisogna pur stare e che l’inferno di Troia, la casa di Itaca, o questo paradiso sono lo stesso. Lei ha scelto l’isola, il paradiso: questo luogo e questo tempo che ha saputo costruirsi da sola. Lei è la sua isola. Un paradiso, che sarebbe perfetto se fosse terrestre. Ulisse l’ha sedotta, per un attimo, alla morte e alla vita: le ha attaccato un po’ di quella sua insopportabile inquietudine che non si lascia guarire. Anche lei prova qualcosa che sembra rimpianto, un dolore puntuto, ma sopportabile. Non è l’ansia di Ulisse, che nell’andare investe una speranza di felicità: la sua è una ferita sottile, ma insanabile. Stupidamente, si potrebbe dire, è nostalgia di lui: di ciò che è già stato. Di come sarebbe stato incontrarlo prima. Prima di Itaca. Ancora prima. Prima di Palamede, prima di Penelope, prima di Troia. Prima. Stupida, come tutte le nostalgie: perché non c’è Ulisse senza l’inganno e il suo smascheramento, non c’è Ulisse senza Troia, senza Penelope e tele fatte e disfatte, senza il naufragio e senza Itaca. Ma se, invece — se lui fosse più disponibile a spiegare il suo desiderio, a fare parte della sua inquietudine e del dolore. Se si fidasse, una volta, delle parole: se non le usasse, per una volta, ma provasse semplicemente a dire la sua necessità di andare e di ritornare. Se provasse ad ascoltare il suo desiderio, a non ridurlo, a non farne una cosa sciocca: se provasse a riconoscersi nel privilegio del suo sguardo. Sarebbe possibile, forse: sarebbe stato possibile prima, quando lui era così com’è ora, ma più giovane. Più vivo e meno avido di vita. Perché Calipso, che sta nell’isola immobile, ogni notte riposa e ogni giorno si sveglia nuova alla vita. Ma Ulisse crede di voler sempre andare da qualche parte: crede in altre vite; come fanno gli uomini, fantastica di altre imprese. Ulisse crede nel ritorno: crede di avere una storia. E credendo di voler andare, per irrequietezza si muove e sente i giorni e impercettibilmente invecchia. Atena, il genio suo lucido e freddo, lo illude ancora, anche qui, che la vita sia calcolo e progetto: ma qui Atena può arrivare soltanto a proiettare l’ombra delle sue illusioni, non può soccorrerlo né guidarlo. Atena non ha potere sull’isola difesa dal mare, è bandita da Ogigia.
E lui ritorna, si ripete. Ossessivamente si annoia, si perde, si accontenta: senza poter mai veramente dimenticare. Coatto in paradiso, segna i giorni e li numera. Giorni e anni, uno per uno: da nomi al tempo e così lo consuma. Calcola quanto tempo lo separa, indietro e in avanti, nella memoria e nella speranza, da Itaca. E così, numerando, si sottrae al giro sempre nuovo del giorno, l’unico ritmo che possa smentire la corrosione del tempo. Lui conta: come Atena, conta e calcola le possibilità di partire, il come e il quando. Conta i giorni per sette anni (per Calipso non significa niente: le pare un gioco, ma un gioco cattivo). Conta e calcola: anche le lacrime, il pianto sulla riva, forse non sono che un trucco, un altro suo inganno. Un bugiardo piange sulla spiaggia di Ogigia. Le uniche lacrime sincere sono quelle che Ulisse verserà quando un cantore, domani, gli ricorderà le sue gesta, quello che lui era stato, le sue imprese nel teatro di Troia. Il passato, la memoria fanno piangere Ulisse, gli velano il capo di un dolore insopportabile: insopportabile come il canto delle Sirene che dicevano anch’esse le gesta degli eroi, la gloria e il segreto della vita immortale.
In riva al mare Ulisse mente per sedurre il suo proprio destino. Ma Calipso è l’unica che non crede agli inganni di Ulisse: l’unica che non gli crede mai. Neppure quando arriva naufrago, aggrappato alla chiglia, gli crede: lo accoglie, ma soltanto perché non può fare altro. Perché è lui. E perché con lui, Calipso si rivela a se stessa: perché questa è la storia e non ce n’è un’altra.
Con Calipso lui è, come sempre è stato, capace di tutto, anche di nascondersi dietro i suoi travestimenti: il debole, il bambino, il naufrago bisognoso di tutto. Ma con Calipso, con lei sola, il gioco non funziona: attraverso il suo velo, lei lo vede, e il suo sguardo riporta Ulisse a se stesso, e gli ricorda una forma non bugiarda, non ridotta, non retorica, del desiderio.
Finché un giorno arriva nell’isola il Messaggero: attraversa la vastissima distesa del mare, poi piomba nel giardino dell’incanto. Anche Hermes prova stupore per l’armonia assoluta di quel luogo: ma deve portare il messaggio. Entra nell’antro dove Calipso, da sola, canta e tesse la tela: Perché sei qui, Hermes? — gli domanda amara — Non ti si vede spesso da queste parti!
Ospitale, gli imbandisce una mensa con nettare e ambrosia. L’ordine è di Zeus: è destino che Ulisse ritorni a casa.
Spietati gli dei olimpi, invidiosi di ogni frammento di felicità, soprattutto quando la felicità è precaria, resa più sapida dall’odore eccitante della morte. Lei l’ha salvato, quando arrivò allo stremo, aggrappato a un rottame di chiglia. Lei l’ha raccolto, nutrito e vestito di cibo, di vesti, di silenzi, di istanti immortali. Loro ora, gli Olimpi, le impongono di insegnargli a partire.
Ma contro il destino, contro il dettato di Dio, non vale replicare, nessuna ragione ha senso. Il Messaggero riparte: ha consegnato il messaggio.
Calipso ora insegnerà all’uomo la via del ritorno. Ancora una volta gli darà tutto: il legno per costruire la zattera che lo porterà via, la tela per le vele, qualcosa da mangiare, acqua per bere e anche un vento propizio.
Ulisse sospetta, dubita di lei, non si fida dei suoi doni. Calipso lo accarezza, lo tocca con le mani e gli dice la verità: Voglio per te ciò che vorrei per me stessa.
Infanti, i mortali! Sarebbe bello credere, come lui, alla partenza e all’avventura, credere al tempo e al ritorno. Bello farsi accecare dalla luce di Apollo, seguire la rotta di Atena, e partire, appena fa giorno.
Insieme tornano alla grotta che assomiglia a una casa, e Ulisse si siede al posto appena lasciato dal Messaggero: Ulisse è Hermes che vuole andare.
Si amano quella notte, e fanno durare l’amore, perché il desiderio non è più disturbato da altri pensieri, mortali o immortali. È l’ultima notte e dopo sette anni il loro desiderio si incontra, si riconosce, e l’amore non ha più fretta, non ha più ansia, non ha più paura. Lei cerca di trattenere qualcosa di lui, magari il suo odore, ma non è capace: Calipso non sa ricordare, la memoria non è una sua dote. Ricordare la farebbe cambiare, e questa è una cicatrice che davvero non può infliggersi. Per un attimo, prima che lui parta, gli parla come una donna gelosa: Non credo di essere peggiore della tua sposa — riesce, anche ora, a non pronunciare il nome di Penelope.
Chi può essere più bella, più desiderabile della ninfa del desiderio? Ma l’amore che Calipso ispira si nutre solo di distanza, di durata astratta e di contatti istantanei e brucianti: No, tu sei più bella. Ma io voglio tornare.
Il giorno della partenza, Calipso si veste di un manto d’argento da lei stessa tessuto e si copre il volto con un velo. Ulisse ricorda Itaca, il suo letto di ulivo: in Ogigia crescono ontani, abeti, pioppi svettanti e prati di viole, ma in quest’isola l’ulivo è materia rara. Di legno d’ulivo è il manico dell’ascia preziosa di cui Calipso gli fa dono. Doni: attimi, cibo, cose e vesti inutilmente immortali. Ulisse a Ogigia ha mangiato immortalità: nettare e ambrosia alla stessa mensa a cui era seduto Hermes. Ma l’uomo sognava pane, olive e vino.
Calipso non ha avuto paura di mostrarsi, di esporsi: ha dato a Ulisse tutto quello che aveva, pur sapendo che il dono è un rischio e un azzardo, che è un atto di arroganza che espone al rifiuto. Ulisse invece non fa doni, non contraccambia, perché è cauto, abile, mai prepotente. Non fa violenza a nessuno con un dono, non si arrischia: non è il Titano, lui, che fa doni tremendi. Ulisse sa solo ricevere e scansarsi, neppure ringrazia. Ma non è «grazie» la parola che Calipso avrebbe voluto sentire.
Avrebbe voluto sospettare in lui un dubbio, avvertire la spesa di un’incertezza. Avrebbe voluto che arrischiasse per una volta un dono, magari fatto soltanto con ciò che aveva: un dono fatto di parole, ma che fossero vere. Un segno vorrebbe, o anche solo un gesto, o anche solo un silenzio, ma che la rassicurasse che anche lui ha visto e capito.
Invece si lasciano senza una parola. Ulisse parte, come deve, da solo, sulla sua zattera, coperto di vesti inutilmente immortali. E Calipso sta sola, per sempre, come prima.
Calipso, ninfa del desiderio lontano, ninfa del tempo e dell’attesa, non aspetterà mai più nessuno: perché ogni ritorno sarebbe — sarà — come le onde del mare, diverso. Perché ogni addio è sterile e amaro come il sale del mare.
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Monica Centanni
Nemica a Ulisse
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Nemica a Ulisse
Bollati Boringuieri editore
Torino, 2007
ISBN: 9788833917740
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