Arxius
Navegar és necessari, viure no és necessari: L’Ulisses (suposadament) nietzscheà de D’Annunzio, amb un contrapunt de Gozzano (i una anotació de Pijoan sobre l’heroi en Maragall)
Estant per salpar, es desferma un gran vent i els pilots vacil·len;
però ell [Pompeu] s’embarca el primer i, donant ordre que llevin l’àncora,
exclama: «Navegar és necessari, viure no és necessari!»
Plutarc
Vides Paral·leles, III, V : Pompeu (51.2)
Traducció de Carles Riba
.
EXPLICIT LAUS VITÆ
Madre, Madre, fa che più forte
e lieto io sia, quando la voce
del dèspota ch’io ben conosco,
che udii tante volte, la maschia
voce nel mio cor solitario
griderà: “Su, svegliati! È l’ora.
Sorgi. Assai dormisti. L’amico
divenuto sei della terra?
Odi il vento. Su! Sciogli! Allarga!
Riprendi il timone e la scotta;
ché necessario è navigare,
vivere non è necessario.
Gabriele D’Annunzio
Laudi
.
.
.Incontrammo colui
che i Latini chiamano Ulisse,
nelle acque di Leucade, sotto
le rogge e bianche rupi
che incombono al gorgo vorace,
presso l’isola macra
come corpo di rudi
ossa incrollabili estrutto
e sol d’argentea cintura
precinto. Lui vedemmo
su la nave incavata. E reggeva
ei nel pugno la scotta
spiando i volubili venti,silenzioso; e il pìleo
tèstile dei marinai
coprìvagli il capo canuto,
la tunica breve il ginocchio
ferreo, la palpebra alquanto
l’occhio aguzzo; e vigile in ogni
muscolo era l’infaticata
possa del magnanimo cuore.E non i tripodi massicci,
non i lebeti rotondi
sotto i banchi del legno
luceano, i bei doni
d’Alcinoo re dei Feaci,
né la veste né il manto
distesi ove colcarsi
e dormir potesse l’Eroe;
ma solo ei tolto s’avea l’arco
dell’allegra vendetta, l’arco
di vaste corna e di nervo
duro che teso stridette
come la rondine nunzia
del dì, quando ei scelse il quadrello
a fieder la strozza del proco.
Sol con quell’arco e con la nera
sua nave, lungi dalla casa
d’alto colmigno sonora
d’industri telai, proseguiva
il suo necessario travaglio
contra l’implacabile Mare.“O Laertiade gridammo,
e il cuor ci balzava nel petto
come ai Coribanti dell’Ida
per una virtù furibonda
e il fegato acerrimo ardeva
“o Re degli Uomini, eversore
di mura, piloto di tutte
le sirti, ove navighi? A quali
meravigliosi perigli
conduci il legno tuo nero?
Liberi uomini siamo
e come tu la tua scotta
noi la vita nostra nel pugno
tegnamo, pronti a lasciarla
in bando o a tenderla ancóra.
Ma, se un re volessimo avere,
te solo vorremmo
per re, te che sai mille vie.
Prendici nella tua nave
tuoi fedeli insino alla morte!„
Non pur degnò volgere il capo.Come a schiamazzo di vani
fanciulli, non volse egli il capo
canuto; e l’aletta vermiglia
del pìleo gli palpitava
al vento su l’arida gota
che il tempo e il dolore
solcato aveano di solchi
venerandi. “Odimi„ io gridai
sul clamor dei cari compagni
“odimi, o Re di tempeste!
Tra costoro io sono il più forte.
Mettimi alla prova. E, se tendo
l’arco tuo grande,
qual tuo pari prendimi teco.
Ma, s’io nol tendo, ignudo
tu configgimi alla tua prua.„
Si volse egli men disdegnoso
a quel giovine orgoglio
chiarosonante nel vento;
e il fólgore degli occhi suoi
mi ferì per mezzo alla fronte.Poi tese la scotta allo sforzo
del vento; e la vela regale
lontanar pel Ionio raggiante
guardammo in silenzio adunati.
Ma il cuor mio dai cari compagni
partito era per sempre;
ed eglino ergevano il capo
quasi dubitando che un giogo
fosse per scender su loro
intollerabile. E io tacqui
in disparte, e fui solo;
per sempre fui solo sul Mare.
E in me solo credetti.
Uomo, io non credetti ad altra
virtù se non a quella
inesorabile d’un cuore
possente. E a me solo fedele
io fui, al mio solo disegno.
O pensieri, scintille
dell’Atto, faville del ferro
percosso, beltà dell’incude!G. D’Annunzio
Maia, canto IV.
.
.
.
L’Iddio che a tutto provvede
poteva farmi poeta
di fede; l’anima queta
avrebbe cantata la fede.
Mi è strano l’odore d’incenso:
ma pur ti perdono l’aiuto
che non mi desti, se penso
che avresti anche potuto,
invece di farmi gozzano
un po’ scimunito, ma greggio,
farmi gabrieldannunziano:
sarebbe stato ben peggio!
Buon Dio, e puro conserva
questo mio stile che pare
lo stile d’uno scolare
corretto un po’ da una serva.
[…]
Guido Gozzano
L’altro
.
.
.
Ulisse naufraga…a bordo d’un yacht
Il Re di Tempeste era un tale
che diede col vivere scempio
un bel deplorevole esempio
d’infedeltà maritale,
che visse a bordo d’un yacht
toccando tra liete brigate
le spiagge più frequentate
dalle famose cocottes.
Già vecchio, rivolte le vele
al tetto un giorno lasciato,
fu accolto e fu perdonato
dalla consorte fedele…
Poteva trascorrere i suoi
ultimi giorni sereni,
contento degli ultimi beni
come si vive tra noi…
Ma né dolcezza di figlio,
né lagrime, né la pietà
del padre, né il debito amore
per la sua dolce metà
gli spensero dentro l’ardore
della speranza chimerica
e volse coi tardi compagni
cercando fortuna in America…
-Non si può vivere senza
danari, molti danari…
Considerate, miei cari
compagni, la vostra semenza!-
Vïaggia vïaggia vïaggia
vïaggia nel folle volo:
vedevano già scintillare
le stelle dell’altro polo…
Vïaggia vïaggia vïaggia
vïaggia per l’alto mare:
si videro innanzi levare
un’alta montagna selvaggia…
Non era quel porto illusorio
la California o il Perù,
ma il monte del Pirgatorio
che trasse la nave all’in giù.
E il mare sovra la prora
si fu richiuso in eterno.
E Ulisse piombò nell’Inferno
dove ci resta tuttora….
Guido Gozzano
.
.
.
He dit amb tota intenció que l’Oda a Barcelona i el Cant espiritual van ésser les últimes poesies verament maragallianes, perquè encara va publicar altres coses, però semblen més aviat una recaiguda que un progrés. Em refereixo especialment a la Nausica i els Himnes homèrics. En la Nausica la gran figura d’Ulisses queda disminuïda, sembla un bon burgès, que té ànsia de tornar a casa a envellir-se a la vora del foc amb la dona i les criatures. No hi ha tragèdia, doncs, en l’enamorament de la Nausica. I això és més lamentable perquè l’Ulisses modern ja no és el de l’Odissea, sinó que ha passat pel cant 26 de l’Infern de Dant; és l’heroi del Tennyson i del D’Annunzio, que no poden aturar ni la dolcesa dels fills ni la pietat del pare, ni el degut amor a la muller. Vol tornar-se expert del món, mai no en té prou:
e degli vizi umani e del valore
I li diria a l’Ulisses d’en Maragall:
considerate la vostra semenza
fatti non foste a viver come brutti
ma per seguire virtude e conoscenza.Aques Ulisses romàntic és l’únic que avui podia enamorar Nausica encara que fos vell i amb el cos cobert de nafres. Navigare è necessario — vivere non è necessario, diu D’Annunzio; l’Ulisses d’en Maragall està tip de córrer món. Sorprèn un tal error d’en Maragall… Herois, homes i déus segueixen la mateixa marxa ascendent, viuen en la consciència de la humanitat i canvien com ella; els poetes han de donar-los canviats segons corren les centúries. Tot l’antic era nou mentre vivia... tot el viu ha d’ésser nou dia per dia.
[…]
Josep Pijoan
El meu Joan Maragall.
Umberto Saba, un Ulisses de Trieste
.
.
…
Trieste té una gràcia
esquerpa. Si voleu,
és com un xicotot aspre i voraç,
amb els ulls blaus i les mans massa grosses
per regalar una flor;
…
.
Umberto Saba
Trieste
trad.: N. Comadira
.
.
ULISSE
.
Nella mia giovinezza ho navigato
lungo le coste dalmate. Isolotti
a fior d’onda emergevano, ove raro
un uccello sostava intento a prede,
coperti d’alghe, scivolosi, al sole
belli come smeraldi. Quando l’alta
marea e la notte li annullava, vele
sottovento sbandavano più al largo,
per fuggirne l’insidia. Oggi il mio regno
è quella terra di nessuno. Il porto
accende ad altri i suoi lumi; me al largo
sospinge ancora il non domato spirito,
e della vita il doloroso amore.Umberto Saba
El Canzoniere (1900 – 1945).
.
.
.
ULISSES
De jove he navegat moltes vegades
seguint les costes dàlmates. Illots
a flor d’aigua emergien, on estrany
un ocell viatjava la presa
coberts d’algues, relliscosos, al sol
bells com maragdes. Quan la marea alta
i la nit els anul·lava, les veles
sotavent s’escampaven mar endins,
fugint dels seus paranys. Ara el meu regne
és allà, en terra de ningú. El port
encén pels altres els seus llums; a mi
m’empeny encara endins l’ànima esquerpa
i de la vida el dolorós amor.
.Traducció de Narcís Comadira
.
.
Francesco de Gregori. Plou a bots i barrals, al «Cantagiro» Homer puja a l’escenari, i ens canta…
.
.
Omero al Cantagiro
.
Piove che Dio la manda
Sulle bocche aperte
Piove che ci si bagna
Sulle macchine scoperteSarà bellissimo fermare il tuo spettacolo
In un fotogramma
Raccogliere pioggia e canzoni
Come fosse la mannaPerché ho fatto più di 100 chilometri per essere qui
A farti firmare i miei dischi
A ringraziarti che esisti
Fra lacrime e fischiCantami, Omero, cantami una canzone
Di ferro e di fuoco e di sangue e d’amore e passione
Lo sai che privato e politico
Li confondono spessoSarà diversa la musica
Ma il controcanto è lo stessoServono piedi buoni per la salita, fortuna e talento
E calli sulla punta delle dita
Per vedere di far suonare questa chitarra
Che sotto la pioggia risplende come un’arma da guerraGiove dall’alto scaglia le sue saette
E si alzano dieci palette
Ed è subito notte, e la radio trasmette
E la pioggia non smetteCantami, Omero
Cantami una canzone
Che nascondi nel pugno
Fallimento e successoSarà diversa la musica
Ma il pentagramma è lo stessoSarà bellissimo fermare questa musica in un fotogramma
Raccogliere pioggia e canzoni come fosse la manna
Perché ho fatto più di 100 chilometri per essere qui
A farmi bagnare i miei dischi, a vedere se esisti
Ma ognuno si prende i suoi rischiCaldo e solenne sale sul palco Omero
.
Francesco de Gregori
Àlbum : Sulla Strada.
.
.
.
.
“Infine, una strana canzone: Omero al Cantagiro, ritmi latini e un testo che si presta a mille letture. «Beh, io sono affezionato al ricordo del Cantagiro, quando non facevo ancora questo mestiere mi affascinava quel mondo, i cantanti mi sembravano figure mitologiche, Caterina Caselli era una dea… E così mi sono immaginato un cantante chiamato Omero, o forse è Omero stesso, che compare nella domesticità di quel mondo per regalare qualcosa di poetico, per rivendicare a questo lavoro una dignità spesso negata…».”
Entrevista a Francesco de Gregori: La Stampa 15/11/2012
“[Il cantagiro] Era un concorso musicale, oggi ce ne sono altri. Nella canzone piove dall’inizio alla fine. È una pioggia come quella di Blade runner: piove sul mondo del mio mestiere. C’è crisi forte, non solo economica, ma anche artistica. Nella pioggia un Omero miracolosamente sale sul palco e canta la guerra di Troia. Per fortuna nella musica ci sono tanti piccoli Omeri che tirano la baracca, mentre nessuno pensa più alla musica. La discografia non c’è più. Lo Stato aiuta altri prodotti come il cinema, anche quando non lo merita. So che non è il momento di chiedere soldi, ma è come se noi producessimo gomma da masticare, come se con De Andrè, Paoli, Jannacci o Ligabue la musica leggera non avesse scritto pagine importanti per questo Paese”
Francesco de Gregori. A: fabiosroom.eu
.
Cantagiro a: it.wikipedia.org
.
Pasolini, en la mort d’Hèctor
.
.
.
EL CRIT D’HÈCTOR A HELENO
(A Cremona el ’33)
.El grec paisatge amb el Xanto
i l’Ida, en un blau febril brilla.
.
El crit d’Hèctor a Heleno, i la ferocitat
de Minerva, la deessa favorita,
em turmenten: no vull que la llança
d’Hèctor caigui en va a la sorra!
.
Tot sol, a la plana polsosa,
ell es mou amb l’ardor perfecta
de l’armadura… I a mi encara
em cohibeix l’Heroi, l’Espòs, a punt
de morir, tan sol.
……………………………..En la seva mort
ara sé que al pit m’esclatava
amor..
Pier Paolo Pasolini
Carrer dels amors
Traducció de Lucia Pietrelli.
.
.
.
.
.
.
.
.
L’URLO D’ETTORE A ELENO
(A Cremona nel ’33)
.
L’ellenico paesaggio con lo Xanto
e l’Ida, in un febbrile azzurro splende.
.
L’urlo d’Ettore a Eleno, e la ferocia
di Minerva, la dea prediletta,
mi angosciano: non voglio che la lancia
d’Ettore cada a vuoto sulla rena!
.
Solo, nella pianura polverosa,
egli si muove col perfetto ardore
dell’armatura… E a me fa ancora
soggezione l’Eroe, lo Sposo, in punto
di morte, così solo.
…………………………….Alla sua morte
ora so che nel petto mi esplodeva
amore.
.
Pier Paolo Pasolini
(Via degli Amori, 1946)
.
.
.
.
.
.
Quaderns de Versàlia, VI
Sabadell, 2016
ISBN : 9788461752133
.
.
.
.
.
La Ilíada, l’Odissea, el Gènesi i l’Èxode. Piero Boitani
.
.
.
L’Iliade e l’Odissea, la Genesi e l’Esodo sono le pietre di fondazione della nostra letteratura e del nostro intero immaginario. L’Odissea e la Bibbia, in particolare, hanno un disegno in buona parte parallelo: la prima è la storia di un uomo che vuole tornare a casa dopo una lunga assenza e ricongiungersi a sua moglie, suo figlio, suo padre, e che è destinato a riprendere il viaggio per trovare una terra che non conosce il mare. La seconda è la storia di un popolo che, caduto in schiavitù ed esiliato, cerca di tornare nel paese dei padri, nella Terra Promessa, e che, una volta ritornato, è costretto a riprendere più volte il cammino: esiliato di nuovo, gli viene promesso un altro ritorno. L’Odissea può divenire viaggio di esplorazione e di scoperta, erranza di ricerca e persino di perdizione. Genesi ed Esodo sono l’errare alla ricerca di Dio, l’emigrazione, la diaspora, lo smarrimento e la caduta perenni, costante rinascita e rinnovata aspirazione al compimento.
L’ombra di un parallelo fra Odissea ed Esodo viene intravista già da uno dei primi Padri della Chiesa cristiana, Clemente di Alessandria, quando, forse seguendo un’esegesi già stabilita negli ambienti giudaico-ellenistici della sua città, descrive nel Protreptikos — l’Esortazione ai Greci — il popolo di Israele errante nel deserto a causa della propria mancanza di fede e, subito dopo, il «vecchio di Itaca» vagabondo per il mare, desideroso non dell’immortalità, della verità, della Luce della patria celeste, ma soltanto di vedere il fumo della sua terra. E se Clemente intuisce il rapporto quasi figurale fra una vicenda e l’altra sulla soglia tra la fine di un’epoca e l’inizio di un’altra, più vicino a noi, ancora sul limitare tra due ere, James Joyce ha intrecciato nel suo Ulisse l’Odissea e la Bibbia, il ritorno ad Itaca e l’Esodo, in maniera vivificante e “comica” nel più alto senso della parola. […]
.
Piero Boitani
Esodi e Odissee (p. 110).
.
.
.
.
Esodi e Odissee
Liguori Editore. Napoli, 2004
ISBN: 9788820737351
.
.
.
.
Com Penèlope, d’Stecchetti, sonet versionat pel metge i poeta Ramon E. Bassegoda
.
.
.
.
SONET
TRADUCCIÓ DEL ITALIÁ STECHETTI
.
Com Penélope ets tu qu’els ulls inclina
anch que ‘l temor no sia en sa mirada,
qu’ á la calumnia vil i descastada
li fa cara ab virtut casi divina.
.
D’amigues deslleials, la viperina
llengua qu’ honres desfá, t’ha respectada;
tu no semblas de carn, Deu t’ha donada
l’augusta magestat d’una regina.
.
De tes formes quan fuig la escayent vesta
que superba en la dansa sols lluhi’
y á ton esguart, glassat el desitx resta;
.
com Penélope ets tu que sabs teixi’
durant el jorn ton vel de dona honesta
per esquinsarlo á mitxa nit ab mi.
.(Publicat a Quatre Gats. 23 de febrer de 1899).
.
.
.
.
Penelope sei tu che il ciglio china
Ma che non china il viso intemerato,
Che la calunnia, i proci ed il peccato
Sfida colla virtù quasi divina.Tu delle amiche tue fin la caina
Lingua e l’invido dente han rispettato.
Tu non sembri di carne. Iddio t’ ha dato
La sacra maestà d’una regina.La veste meno che il pudor ti vela
Quando superba nelle danze vai,
Ed un tuo sguardo il desiderio gela.Penelope sei tu, che tesser sai
A mezzogiorno la tua bianca tela
E meco a mezzanotte la disfai.Lorenzo Stecchetti [Olindo Guerrini]
.
.
.
«L’uomo ricco d’astuzie raccontami, O Musa, che a lungo errò…» Invocació de l’Odissea segons Rosa Calzecchi Onesti
.
.
.
.
L’uomo ricco d’astuzie raccontami, o Musa, che a lungo
errò dopo ch’ebbe distrutto la rocca sacra di Troia;
di molti uomini le città vide e conobbi la mente,
molti dolori patì in cuore sul mare,
lottando per la sua vita e pel ritorno dei suoi.
Ma non li salvò, benché tanto volesse,
per loro propria follía si perdettero, pazzi!,
che mangiarono i bovi del Sole Iperíone,
e il Sole distrusse il giorno del loro ritorno.
Anche a noi di’ qualcosa di queste avventure, o dea, figlia di Zeus.
.
Odissea, I, 1-10
.
.
.
.
.
.
.
Versione di Rosa Calzecchi Onesti (1963)
.
.
.
.
Odissea
Versione di Rosa Calzecchi Onesti
Et classici
Giulio Einaudi editore. Torino, 2014
ISBN: 9788806219420
.
.
.
Canta, o dea, l’ira d’Achille Pelide, rovinosa… Invocació de la Ilíada per Rosa Calzecchi Onesti
.
.
.
Canta, o dea, l’ira d’Achille Pelide,
rovinosa, che infiniti dolori inflisse agli Achei,
gettò in preda all’Ade molte vite gagliarde
d’eroi, ne fece il bottino dei cani,
di tutti gli uccelli —consiglio di Zeus si compiva—
da quando prima si divisero contendendo
l’Attride signore d’eroi e Achille glorioso.
.
Ilíada, I, 1-7
.
.
.
Versione di Rosa Calzecchi Onesti
.
.
.
CESARE PAVESE, ROSA CALZECCHI ONESTI E LE TRADUZIONI DI OMERO PER EINAUDI.
.
.
Iliade
Et Classici
Giulio Einaudi editore. Torino, 2014
ISBN: 9788806219109
.
.
.
La Circe de Cortázar i la Petita Circe de Buzzati
.
.
.
60
Morelli había pensado una lista de acknowledgements que nunca llegó a incorporar a su obra publicada. Dejó varios nombres: Jelly Roll Morton, Robert Mussil, Dasetz Teitaro Suzuki, Raymond Roussel, Kurt Schwitters, Vieira da Silva, Akutagawa, Anton Webern, Greta Gargo, José Lezama Lima, Buñuel, Louis Armstrong, Borges, Michaux, Dino Buzzati, Max Ernst, Pevsner, Gilgamesh (¿), Garcilaso, Arcimboldo, René Clair, Piero di Cosimo, Wallace Stevens, Izak Dinesen. Los nombres de Rimbaud, Picasso, Chaplin, Alban Berg y otros habían sido tachados con un trazo muy fino, como si fueran demasiado obvios para citarlos. Pero todos debían serlo al fin y al cabo, porque Morelli no se decidió a incluir la lista en ninguno de los volúmenes.
Julio Cortázar
Rayuela
.
.
.
[…]
Yo me acuerdo mal de Delia, pero era fina y rubia, demasiado lenta en sus gestos (yo tenía doce años, el tiempo y las cosas son lentas entonces) y usaba vestidos claros con faldas de vuelo libre. Mario creyó un tiempo que la gracia de Delia y sus vestidos apoyaban el odio de la gente. […]
[…]
[…] Un gato seguía a Delia, todos los animales se mostraban siempre sometidos a Delia, no se sabía si era cariño o dominación, le andaban cerca sin que ella los mirara. Mario notó una vez que un perro se apartaba cuando Delia iba a acariciarlo. Ella lo llamó (era en el Once, de tarde) y el perro vino manso, tal vez contento, hasta sus dedos. La madre decía que Delia había jugado con arañas cuando chiquita. Todos se asombraban, hasta Mario que les tenía poco miedo. Y las mariposas venían a su pelo —Mario vio dos en una sola tarde, en San Isidro—, pero Delia las ahuyentaba con un gesto liviano. Héctor le había regalado un conejo blanco, que murió pronto, antes que Héctor. […]
[…]
Julio Cortázar
Circe.
.
.
[…]
Due giorni dopo la conobbi. Era nel suo studio, seduta sul divano. Giovanissima, una faccia arguta da bambina, la pelle tesa nell’inesprimibile freschezza dell’età, i capelli neri e lunghi avvoltolati in una strana pettinatura ottocentesca, il corpo da adolescente, ancora. Bella? Non so. Certo un tipo insolito, popolaresco e insieme chic. Ma c’era, fra il suo aspetto e le cose che mi aveva raccontato Umberto, una contraddizione insuperabile. Tutto in lei era allegria, spensieratezza, gioia di vivere, ingenuo abbandono alle sollecitazioni della vita; o almeno pareva.
Con me fu gentilissima. Cinguettava, guardandomi, e le labbra si aprivano a sorrisi maliziosi. Esagerava anzi, in questo senso, come per un’aperta intenzione di conquista. E a Umbertop non badava, come si non esistesse. Umberto, in piedi, con uno stentato sorriso sulle labbra, la contemplava, istupidito.
Con un gesto di meravigliosa inverecondia, Lunella si aggiustò la gonna lasciando intravereder più del lecito. Poi piegò la testa, provocante, da scolaretta impertinente: «Sa chi sono? Io sono il ciclone» mi disse «io sona la tromba marina, io sono l’arcobaleno. Io sono… io sono una bambina deliziosa». E rideva, apparentemente felice.
[…]
Dino Buzzati
Piccola Circe.
.
.
Cortázar publica en Buenos Aires el relato que lleva por título Circe en el año 1951, dentro del volumen Bestiario, en un momento que él mismo califica de “emocionalmente difícil”. Quince años después, Dino Buzzati publica Piccola Circe en la colección de relatos breves que lleva por título Il Colombre. Ambos autores toman voluntariamente un motivo que es conocido por todos gracias a la herencia común de la cultura occidental. El motivo de Circe. Inspirándose en la Odisea trasladan la trama del capítulo dedicado a la diosa-bruja a la época actual, convirtiendo así a sus protagonistas en modernos odiseos que tienen que pasar por numerosas pruebas y dificultades.
En el caso de los textos que nos ocupan, la alusión al mito clásico convierte los dos relatos en un tejido de símbolos y motivos que converten su lectura en una búsqueda de paralelismos entre la obra moderna y su inspiración clásica. Se predispone de antemano al lector a recoger en el recorrido del texto alusiones argumentales a la obra homérica, observando al mismo tiempo en qué punto o puntos la versión moderna se aleja de la antigua.
La primera alusión que encontramos al mito clásico es el título. En el caso de Cortázar, éste es sencillamente Circe. No vuelve a aparecer una alusión directa al texto homérico en ningún otro momento del texto, pero el efecto ya está logrado. En Buzzati el título, Piccola Circe, es también la única alusión directa, pero no sólo nos prepara de cara a la trama argumental sino que también subraya el concepto de Lolita que encontraremos posteriormente en el argumento gracias al adjetivo piccola.
En todo caso, es claro que si el lector conoce el mito originario será capaz de ver más en el texto moderno. Prevemos lo que vamos a encontrar en el texto gracias a la herencia cultural, pero reelaboramos al mismo tiempo los conceptos a medida que se alejan de la línea original. Con ello cuentan los autores, que manejan de esta manera nuestro horizonte de expectativas. De manera que el mito cobra hoy un nuevo significado que es la suma de los significados que se le ha ido dando a lo largo de la historia, entendida ésta en el sentido hermenéutico. En el caso del mito clásico que nos ocupa, se sintetiza de manera absoluta en el concepto mismo del término Circe, que pasa a utilizarse en la lengua cotidiana con el significado de “mujer astuta y engañosa” [RAE]. Cortázar y Buzzati reinterpretan dicho concepto.
[…]
Aránzazu Calderón Puerta
La trampa de Circe. El motivo mitológico en dos relatos de Julio Cortázar y Dino Buzzati.
Dins de: Reescritura e intertextualidad: literatura-cultura-historia
Editat per Urszula Aszyk
[…] la posibilidad de establecer un parentesco literario entre Buzzati y Cortázar nace del análisis de los mecanismos de lo fantástico en las obras de ambos autores. Mecanismos que, en ocasiones […], determinan también una construcción del cuento parecida. Tanto en Buzzati como en Cortázar, lo fantástico cotidiano peculiar del siglo XX se obtiene recurriendo a “vacíos”, formas distintas de reticencia que contribuyen a volver cada vez más lábil el nexo causal entre los eventos y a cubrir con ambigüedad e indefinición el discurso fantástico entero.
[…] lo que se calla, en estos textos, se vuelve aún más significativo que lo que se narra, pues lo no dicho no solo forma parte de una estrategia pensada para la creación del suspense, sino que constituye el sentido mismo del texto fantástico, coincidente con dicha indecibilidad e inexplicabilidad.
La pregunta fundamental se desliza pues de “què quiere decir lo dicho” a “qué es lo que se dice a través de lo no dicho”.
[…]
Buzzati y Cortázar organizan las elipsis en sus textos de manera parecida, aunque las modulaciones de lo fantástico y la función que este desempeña en sus cuentos alcanzan resultados diferentes.
[…]
Anna Boccuti
“Vacíos” fantásticos y absurdo: una lectura de los cuentos de Dino Buzzati y Julio Cortázar.
Les Ateliers du SAL 1-2 (2012): 75-92.
.
.
.
Julio Cortázar
Círculo de Lectores
Barcelona, 1974
ISBN: 8422606038
.
.
.
.
Il colombre
e altro cinquanta racconti
Col. Oscar scrittori moderni, 1,235
Oscar Mondadori. Milano, 2013
ISBN: 9788804461104
.
.
.
La Ilíada de César Brie (Teatro de los Andes). Una visió argentino-boliviano-italiana.
.
.
Anna Banfi
Desaparecido: Omero in Sud America
Il teatro necessario di César Brie
.
.
.
.
Escena 1
.
Prólogo
Hécuba: Me llamo, me llaman, me llamaban Hécuba.
Un tiempo fui feliz en tierra de Troya.
Ahora, de tanto sufrir, me he vuelto perra.
En la llanura entre los restos de la ciudad quemada,
buscando un hueso que roer,
tal vez el de los hijos degollados,
sacrificados, muertos en batalla.Quien pierde el padre es huérfano.
Y viudo quien entierra a su esposa,
pero no hay palabra que nombre al triste
padre o a la madre del hijo muerto.
No hay modo de nombrar un tal dolor,
tal vez: innatural, inútil, vano, eterno.
La guerra, viudas crían huérfanos, madres paren muertos.
Un tiempo fui feliz y de ese tiempo recuerdo a Polidoro
el más pequeño y tierno de mis hijos.
El inocente, el cordero, Polidoro…
que nunca supo cómo era Troya.Polidoro: Yo, Polidoro, hijo de Hécubay de Príamo,
las puertas de las tinieblas, el reino de los muertos donde habita Hades,
lejos de los dioses, las dejé para venir aquí.
Yo las dejé para venir aquí.
¡Tío!
Mi madre temiendo por mi suerte…
Me mandó a un pueblo que ama los caballos…
Mira, mira los caballos que corren, cuántos…
Yo era el más joven cuando me alejaron de la patria:
No tenía fuerzas para sostener la coraza, para lanzar la jabalina…
Un huésped de mi padre, mi tío, prometió cuidarme
y yo crecía en su casa como un retoño, como un retoño.
Por sed de oro…
¡Tío!
Cuando Troya cayó, quemada
exterminada usurpada violada,
él me asesinó y abandonó en el mar mi cadáver.
Tendido en la arena, me sacude el flujo de las olas,
en el juego alterno de las mareas.
Y no tengo sepulcro ni duelo y no tengo sepulcro ni duelo.
¡Tío!
He abandonado mi cuerpo, soy el fantasma de mí mismo,
me elevo, fluctúo en torno de Hécuba, mi madre,
esposa de Príamo, padre de Héctor, París, Casandra, Polixena. ¡Aquiles!
¡Aquiles reclama para su tumba, como señal de honor un sacrificio;
lo obtendrá, no le negarán sus amigos este regalo, no se lo negarán.
¡El destino hoy mismo empuja hacia la muerte a Polixena mi hermana!
Y yo, desventurado, por obtener un sepulcro afloraré, afloraré en la orilla.
¡Tío!
He rezado a los dioses, los dioses que cuentan,
para que me concedan una tumba,
y me conduzcan entre los brazos de mi madre,
aterrorizada por mi sombra.
¡Tío!
Aquello que pedí, va a serme concedido.
¡Tío!
El agua, el agua, me lleva, el agua… mamá, mamá…Hécuba: Polidoro…
Polidoro: Mamá… ¿cómo era mi casa? ¿Cómo era Troya?
Hécuba: Como todas las ciudades cerca de la costa.
Tenía torres, pájaros, y viento del oeste.
Y tú te bañabas a orillas del mar.
Hasta que los griegos trajeron la guerra.Polidoro: ¿La guerra? ¿Cómo fue la guerra?
Hécuba: La guerra… Duró diez años la guerra…
.
1) Coro
Ahora cantamos la furia de Aquiles
que infinitos dolores provocó a los griegos
tantas almas de héroes bajaron al Hades
tantos cuerpos devorados por buitres y perros.La guerra de Troya llevaba diez años.
Los griegos sitiaban la vasta ciudad.
Aquiles era el guerrero más fuerte
de los invasores, pero no luchaba.Había peleado con Agamenón.
El rey de los griegos lo había ofendido,
le había quitado su esclava Briseida,
botín de otra guerra. Por eso Aquiles
se queda en las naves, dejando a los griegos
el asedio de Troya y la lucha contra Héctor.Apolo, el dios de las flechas
que amaba a Troya, y ayudaba a Héctor
envió la peste a los griegos.
Estaba furioso contra Agamenón
que había profanado uno de sus templos,
había secuestrado su sacerdotisa,
la había violado y vuelto su esclava..
2) La peste
Apolo, los griegos.
Apolo: bajé del Olimpo enfurecido,
parecido a la noche, con el arco en la mano.
Las flechas sonaban cerradas en la aljaba.
Lejos de las naves tomé puntería y lancé una flecha.
Siniestra vibró la cuerda del arco y alguien cayó.
Primero le di a los perros y a los mulos, luego a los hombres.
Caían como moscas, como ratas,
como insectos enfermos de peste.
Ardían las hogueras quemando a los muertos[…]
.
.
.
Acto 2
.
1) Rodolfo Walsh
Rodolfo Walsh, Victoria, perros.Walsh: Rodolfo Walsh, escritor, periodista. Asesinado en Buenos Aires en 1977.
Seis meses antes había muerto Victoria mi hija. (Abre un libro.) La Ilíada:
“Junto a su padre luchaba Arpalión,
una flecha aguda se hundió en su nalga
partió la vejiga, se incrustó en el hueso.
Mojaba la sangre los brazos del padre
mientras lo llevaba a Troya y lloraba.
Por un hijo que muere no hay recompensa”.Aparece el espectro de Victoria.
¡Victoria! Aquí me ves, leo La Ilíada, la guerra de Troya.
Hay una hija de Príamo, Polixena. Te le parecías tanto hija mía: rebelde, obstinada, orgullosa.
A Polixena la degollaron en honor a Aquiles.Tenía veinte y seis años mi hija Victoria.
Argentina se parecía cada vez más a un barrio de Troya.
Como tantos chicos que repentinamente
se hicieron adultos, mi hija andaba a los saltos
huyendo de casa en casa por todo Buenos Aires.
No se quejaba, sólo su sonrisa se volvía desvaída.
Nos veíamos cada quince días
caminando en una calle o alguna plaza.
Hacíamos planes para vivir juntos,
pero ambos presentíamos que no iba a ser posible,
que uno de esos encuentros podía ser el último.
Y nos despedíamos simulando valor
consolándonos de la anticipada pérdida.
Más de cien soldados rodearon la casa
con tanque, helicóptero, ametralladoras.
Victoria, en camisón, corrió hasta la azotea.
El combate duró una hora y media.
Mi hija conocía el trato que ejército y marina
dispensaban a los prisioneros, y pensaba
que el pecado no era hablar, sino caer viva.
De pronto hubo silencio, Victoria se levantó,
se acercó a la cornisa.
Flaca, de pelo largo, en camisón de noche,
Alicia en el país de las pesadillas.
“No nos matan ustedes”, dijo a la tropa.
“Nosotros elegimos morir” y luego
llevó una pistola a la sien, y apretó el gatillo.Por la radio supe que habías muerto,
entonces me santigüé como cuando era un niño.
Se me detuvo el mundo. “Era mi hija”, dije.
Tenía miedo por ti y vos por mí
ahora el miedo es dolor. Te quise tanto…
No pude despedirme, en lo oscuro se mueren
los perseguidos. Nos queda la memoria
como único cementerio. Ahí te guardo
te acuno, te celebro y quizás te envidio.
“Mojaba la sangre los brazos del padre.
Mientras lo llevaba a Troya y lloraba.
Por un hijo que muere no hay recompensa”..
César Brie
La Ilíada.
.
.
.
I GRECI SIAMO NOI
Avete visto nell’ultima scena Priamo che porta sulle proprie spalle il cadavere di Ettore, il quale a sua volta porta un manichino con le sue stesse sembianze. Ettore è doppio perché nell’Iliade si racconta che durante il giorno Achille distrugge il suo cadavere, mentre alla sera Afrodite e soprattutto Apollo lo ricompongono. Quando Priamo chiede il corpo ad Achille, questi prende un drappo che il re ha portato tra i tanti doni del riscatto e avvolge il corpo di Ettore perché, dice Omero, non vuole che il padre veda come lui ha ridotto il cadavere del figlio. Ciò significa che, agli occhi di Achille, Ettore è un cadavere distrutto. Eppure quando quel cadavere arriva, poche ore dopo, a Troia, la madre gli dice: «Sei tornato, sei intatto come uno che è morto sognando i suoi cari».
E un testo che io faccio dire ad Andromaca, e i filologi qui presenti si tapperanno le orecchie. Ho pensato che in realtà c’è una visione del cadavere che corrisponde allo sguardo di chi lo ammazza e una visione che proviene dallo sguardo di chi lo ricorda. È un tema molto vicino a quello dei desaparecidos, e tale vicinanza è stato il primo motivo per cui ho deciso di lavorare su l’Iliade. Così abbiamo costruito questo doppio di Ettore, un doppio che viene quasi distrutto in scena, sul quale si può esercitare la violenza. Come avete visto nella sequenza in cui Achille prende il manichino, che è identico all’attore, fatto con un calco dell’attore, e lo scaraventa contro il muro. Esattamente quello che pochi giorni fa in Tv ho visto fare a dei talebani morti, quando i soldati dell’Alleanza del nord prendevano a calci i cadaveri, che non potevano sentire più niente. E questo per me è il paradigma di ciò che sono la guerra e ogni esercizio della violenza.
L’Iliade è un testo che per fortuna non ho letto a scuola. L’ho letto prima, l’ho letto da me. Leggevo molto da bambino, mio padre era libraio, quindi io potevo leggere quello che volevo, divoravo i libri. Divoravo i libri e giocavo a calcio, le due cose che amavo e ancora oggi amo fare.
Quando ho riletto il poema ho provato una grande commozione. Ero qui in Italia, durante una tournée, a casa di un amico. La figlia, studentessa di Lettere, aveva lasciato il libro sul comodino della sua stanza, che mi aveva ceduto per la notte. Come ogni libro che si sfoglia, l’ho aperto a caso, e ho cominciato a leggerlo dalla fine. Ho preso l’ultimo capitolo, dove si racconta la ricerca del cadavere di Ettore da parte del padre Priamo. Proprio l’ultima scena che avete visto. E mi sembrava che parlasse dei desaparecidos e dell’America Latina di oggi. Ero molto colpito. Quella che avevo tra le mani era la traduzione in versi di Rosa Calzecchi Onesti, una versione straordinaria.
Ho aperto un’altra pagina a caso e ho cominciato a leggere un altro frammento: la descrizione di una battaglia, con teste tagliate, occhi che saltano, cervello che cola… un orrore. Prendo ancora un brano: un dialogo d’amore tra Andromaca ed Ettore – che è poi l’unico dialogo d’amore tra i due. Ed era troppo. Erano tre frammenti che leggevo e tutti mi arrivavano dritti al cuore. Allora ho comperato il libro. Dato che ero in Italia, ho preso sia la traduzione libera di Maria Grazia Ciani, sia la versione della Calzecchi Onesti. E le ho divorate. Poi ho acquistato anche un’edizione spagnola. Con lo spagnolo noi latinoamericani abbiamo dei problemi, perché il nostro castigliano è molto diverso da quello della Spagna e le traduzioni spagnole spesso le sentiamo troppo lontane. Ne ho confrontate diverse, prese in Messico, in Argentina, in Spagna, ma in realtà mi sono servite di più le due traduzioni italiane.
[…]
[…] mi ricordo l’impressione di una persona che normalmente non va a teatro e che alla fine dello spettacolo mi ha detto: «Appena è cominciata la canzone in quechua —è la canzone di Polidoro fantasma— ho capito: i Greci siamo noi». E io ho pensato: allora ci sono riuscito.
.
César Brie
Conferència Riflessioni su un’Iliade andina a la Facultat de lletres de la Universitat dels Estudis de Siena. 5 de desembre de 2001.
Inclosa a: César Brie. L’Iliade del teatro de los Andes. Ed. Titivillus.
Introducció (primeres 17 pàgines): Titivillus.it
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
Teatro I – La Ilíada / Las Abarcas del Tiempo
En un sol amarillo / Otra vez Marcelo
Presentación de Jorge Dubatti
Estudio crítico y edición de Marita Foix
Editorial Atuel. Buenos Aires, Argentina, 2013
ISBN: 9789871155842
.
.
L’Iliade del Teatro de los Andes
A cura de Fernando Marchiori
Traduzzioni di Silvia Raccampo
Teatrino di Fondi / Titivillus Mostre Editoria. Corazzano (Pisa), 2010
ISBN: 9788872182987
.
.
Un film-documentario di Reinhard Manz,
Matthias Rebstock e Daniel Ort
Point de vue-doc
Svizzera, 2003
DVD – Video
.
.
.