Arxius
La guerra a la Ilíada. Entre la seva bellesa i els seus desastres
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Ares, […] posseït de furor, tot ell maldat… (Íl., V, 831)
Ares, flagell dels mortals… (Íl., V, 846)
Ares, que fa vessar llàgrimes… (Íl., VIII, 515)
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Pieter Paul Rubens. Les conseqüències de la guerra (1637-1638). Galeria Palatina (Palazzo Pitti). Florència
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Un’altra bellezza. Postilla sulla guerra
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Cosa dobbiamo fare per indurre il mondo a seguire la propria inclinazione per la pace? Anche su questo l’Iliade ha, mi sembra, qualcosa da insegnare. E lo fa nel suo tratto più evidente e scandaloso: il suo tratto guerriero e maschile. È indubbio che quella storia presenti la guerra come uno sbocco quasi naturale della convivenza civile. Ma non si limita a questo: fa qualcosa di assai più importante e, se vogliamo, intollerabile: canta la bellezza della guerra, e lo fa con una forza e una passione memorabili. Non c’è quasi eroe di cui non si ricordi lo splendore, morale e fisico, nel momento del combattimento. Non c’è quasi morte che non sia un altare, decorato riccamente e ornato di poesia. La fascinazione per le armi è costante, e l’ammirazione per la bellezza estetica dei movimenti degli eserciti è continua. Bellissimi sono gli animali, nella guerra, e solenne è la natura quando è chiamata a far da cornice al massacro. Perfino i colpi e le ferite vengono cantati come opere superbe di un artigianato paradossale, atroce, ma sapiente. Si direbbe che tutto, dagli uomini alla terra, trovi nell’esperienza della guerra il momento di sua più alta realizzazione, estetica e morale: quasi il culmine glorioso di una parabola che solo nell’atrocità dello scontro mortale trova il proprio compimento. In questo omaggio alla bellezza della guerra, l’Iliade ci costringe a ricordare qualcosa di fastidioso ma inesorabilmente vero: per millenni la guerra è stata, per gli uomini, la circostanza in cui l’intensità – la bellezza – della vita si sprigionava in tutta la sua potenza e verità. Era quasi l’unica possibilità per cambiare il proprio destino, per trovare la verità di se stessi, per assurgere a un’alta consapevolezza etica. Di contro alle anemiche emozioni della vita, e alla mediocre statura morale della quotidianità, la guerra rimetteva in movimento il mondo e gettava gli individui al di là dei consueti confini, in un luogo dell’anima che doveva sembrar loro, finalmente, l’approdo di ogni ricerca e desiderio. Non sto parlando di tempi lontani e barbari: ancora pochi anni fa, intellettuali raffinati come Wittgenstein e Gadda, cercarono con ostinazione la prima linea, il fronte, in una guerra disumana, con la convinzione che solo là avrebbero trovato se stessi. Non erano certo individui deboli, o privi di mezzi e cultura. Eppure, come testimoniano i loro diari, ancora vivevano nella convinzione che quell’esperienza limite – l’atroce prassi del combattimento mortale – potesse offrire loro ciò che la vita quotidiana non era in grado di esprimere. In questa loro convinzione riverbera il profilo di una civiltà, mai morta, in cui la guerra rimaneva come fulcro rovente dell’esperienza umana, come motore di qualsiasi divenire. Ancor oggi, in un tempo in cui per la maggior parte degli umani l’ipotesi di scendere in battaglia è poco più che un’ipotesi assurda, si continua ad alimentare, con guerre combattute per procura attraverso i corpi di soldati professionisti, il vecchio braciere dello spirito guerriero, tradendo una sostanziale incapacità a trovare un senso, nella vita, che possa fare a meno di quel momento di verità. La malcelata fierezza maschile cui, in Occidente come nel mondo islamico, si sono accompagnate le ultime esibizioni belliche, lascia riconoscere un istinto che lo shock delle guerre novecentesche non ha evidentemente sopito. L’Iliade raccontava questo sistema di pensiero e questo modo di sentire, raccogliendolo in un segno sintetico e perfetto: la bellezza. La bellezza della guerra – di ogni suo singolo particolare – dice la sua centralità nell’esperienza umana: tramanda l’idea che altro non c’è, nell’esperienza umana, per esistere veramente.
Quel che forse suggerisce l’Iliade è che nessun pacifismo, oggi, deve dimenticare, o negare quella bellezza: come se non fosse mai esistita. Dire e insegnare che la guerra è un inferno e basta è una dannosa menzogna. Per quanto suoni atroce, è necessario ricordarsi che la guerra è un inferno: ma bello. Da sempre gli uomini ci si buttano come falene attratte dalla luce mortale del fuoco. Non c’è paura, o orrore di sé, che sia riuscito a tenerli lontani dalle fiamme: perché in esse sempre hanno trovato l’unico riscatto possibile dalla penombra della vita. Per questo, oggi, il compito di un vero pacifismo dovrebbe essere non tanto demonizzare all’eccesso la guerra, quanto capire che solo quando saremo capaci di un’altra bellezza potremo fare a meno di quella che la guerra da sempre ci offre. Costruire un’altra bellezza è forse l’unica strada verso una pace vera. Dimostrare di essere capaci di rischiarare la penombra dell’esistenza, senza ricorrere al fuoco della guerra. Dare un senso, forte, alle cose senza doverle portare sotto la luce, accecante, della morte. Poter cambiare il proprio destino senza doversi impossessare di quello di un altro; riuscire a mettere in movimento il denaro e la ricchezza senza dover ricorrere alla violenza; trovare una dimensione etica, anche altissima, senza doverla andare a cercare ai margini della morte; incontrare se stessi nell’intensità di luoghi e momenti che non siano una trincea; conoscere l’emozione, anche la più vertiginosa, senza dover ricorrere al doping della guerra o al metadone delle piccole violenze quotidiane. Un’altra bellezza, se capite cosa voglio dire.
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Alessandro Baricco
Omero, Iliade.
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Una altra bellesa. Postil·la sobre la guerra
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[…]
¿Com ho podem fer? ¿Com podem induir el món a seguir la pròpia inclinació per la pau? Em sembla que, en aquest punt, la llíada també ens ensenya alguna cosa. I ho fa en el fragment més evident i escandalós: el seu fragment guerrer i masculí. Es indubtable que aquesta història presenta la guerra com el resultat gairebé natural de la convivència civil. Però no s’atura aquí. Fa una altra cosa molt més important, i, si volem, intolerable: canta la bellesa de la guerra, i ho fa amb una força i una passió memorables. Pràcticament no hi ha cap heroi del qual no se’ns recordi l’esplendor, moral i física, en el moment del combat. Pràcticament no hi ha cap mort que no sigui un altar, ricament decorat i adornat de poesia. La fascinació per les armes és constant, i l’admiració per la bellesa estètica dels moviments dels exèrcits és contínua. Els animals, en la guerra, són magnífics, i la natura és solemne quan se la crida per fer de marc a la matança. Fins i tot els cops i les ferides es canten com obres sublims d’una artesania paradoxal, atroç, però experta. És com si tot, dels homes a la terra, trobés en l’experiència de la guerra el moment de més alta realització, estètica i moral; gairebé com si fos la culminació gloriosa d’una paràbola que només troba compliment en l’atrocitat del xoc mortal. En aquest homenatge a la bellesa de la guerra, la llíada ens obliga a recordar una cosa enutjosa però inexorablement certa: durant mil·lennis la guerra ha estat, per als homes, la circumstància en la qual la intensitat —la bellesa— de la vida alliberava tota la seva potència i veritat. Era gairebé l’única possibilitat de canviar el propi destí, de trobar la veritat d’un mateix, d’elevar-se a una alta consciència ètica. Davant de les emocions anèmiques de la vida, i de l’altura moral mediocre de la quotidianitat, la guerra feia moure el món i projectava els individus més enllà dels seus límits habituals, en un lloc de l’ànima que, comptat i debatut, els devia semblar la meta de totes les recerques i desitjos. No parlo de temps llunyans i bàrbars: no fa gaires anys, intel·lectuals refinats com ara Wittgenstein i Gadda van buscar obstinadament la primera línia de front en una guerra inhumana, amb el convenciment que era l’únic lloc on es podrien trobar a ells mateixos. Es evident que no eren homes dèbils ni desproveïts de mitjans i de cultura. I tanmateix, tal com mostren els seus diaris, encara vivien en el convenciment que aquella experiència límit —la praxis atroç del combat mortal— els podria oferir allò que la vida quotidiana no era capaç de donar. Aquest convenciment reflecteix el perfil d’una cultura, que no ha mort mai, en la qual la guerra era l’eix candent de l’experiència humana, el motor de qualsevol esdevenir. Encara avui, en una època en la qual la major part dels humans considera la hipòtesi d’anar al combat pràcticament com una hipòtesi absurda, es continua alimentant, amb guerres dutes a terme per procuració mitjançant cossos de soldats professionals, el vell braser de l’esperit guerrer, cosa que traeix una incapacitat substancial per trobar un sentit, a la vida, que pugui prescindir d’aquest moment de veritat. El mal dissimulat orgull masculí que, tant a Occident com en el món islàmic, ha acompanyat les últimes exhibicions bèl·liques deixa reconèixer un instint que el xoc de les guerres del segle passat és evident que no va aplacar. La llíada explicava aquest sistema de pensament i aquesta manera de sentir, i ho recollia en un signe sintètic i perfecte: la bellesa. La bellesa de la guerra —de cada detall particular— expressa el lloc central que ocupa en l’experiència humana: transmet la idea que, en l’experiència humana, no hi ha res més per existir realment.
El que potser suggereix la llíada és que cap pacifisme, avui dia, ha d’oblidar o negar aquesta bellesa com si no hagués existit mai. Dir o ensenyar que la guerra és un infern i prou és una mentida nociva. Encara que soni atroç, cal recordar que la guerra és un infern, però un infern bell. Des de sempre els homes s’hi tiren com papallones atretes per la llum mortal del foc. No hi ha por, ni horror, que hagi aconseguit mantenir-los allunyats de les flames, perquè és el lloc on sempre han trobat l’única redempció possible de la penombra de la vida. Per això, avui en dia, la tasca d’un pacifisme de debò no hauria de ser demonitzar fins a l’extrem la guerra, sinó entendre que només quan siguem capaços d’una altra bellesa podrem prescindir de la que ens ofereix des de sempre la guerra. Construir una altra bellesa potser és l’únic camí cap a una pau de debò. Demostrar que som capaços d’il·luminar la penombra de l’existència sense recórrer al foc de la guerra. Donar un sentit, fort, a les coses sense haver d’acostar-les a la llum, enlluernadora, de la mort. Poder canviar el propi destí sense haver d’apoderar-nos del d’un altre; aconseguir fer moure els diners i la riquesa sense haver de recórrer a la violència; trobar una dimensió ètica, fins altíssima, sense haver d’anar a buscar-la al llindar de la mort; trobar-nos a nosaltres mateixos en la intensitat de llocs i moments que no siguin una trinxera; conèixer l’emoció, fins la més vertiginosa, sense haver de recórrer al dòping de la guerra o a la metadona de les petites violències quotidianes. Una altra bellesa, si enteneu què vull dir.
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Alessandro Baricco
Homer, Ilíada
Traducció al català d’Anna Casassas
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Pablo Picasso. Guernica 1937. Amb clares influències del quadre de Rubens Les conseqüències de la guerra.
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Introducción
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La Ilíada es el poema del desarme de la cultura, en el doble sentido de la palabra desarme: porque desarma, desmonta las construcciones culturales que dignifican la acción mortífera del héroe, mostrándola como fuente de destrucción y sufrimiento ajeno y propio; y porque apunta a un mundo de valores no apuntalado por las armas.
A través del poema, que nos muestra a unos héroes en acción en el décimo año de la guerra de Troya, Homero nos ofrece, no una exaltación de las proezas guerreras o de la moral heroica, sino una crítica del comportamiento heroico, que no se limita al cuestionamiento de los valores que lo sustentan, sino que señala un horizonte de humanidad que los trasciende. Seguirlo a Homero en esta exploración crítica y poner de relieve la actualidad de su enseñanza es el objeto del presente libro.
La destreza poética que refleja la Ilíada es algo comúnmente aceptado, pero la valía ética que da sentido al poema, y lo configura, dista mucho de ser reconocida como merece. Más bien las interpretaciones más extendidas la ignoran o desvirtúan por completo. Así, es un lugar común considerar la Ilíada como un canto heroico a la guerra de Troya, como un poema centrado en celebrar la gloria de los héroes y de los dioses, en sintonía con la tradicional y colectiva épica heroica. Desde este punto de vista, lo que convierte a este poema en una obra maestra de la literatura es la excepcional destreza con la que el aedo pone en juego la fuerza poética que encierra la acción heroica. Y si de ética homérica cabe hablar, ésta consiste en un ennoblecimiento del héroe, que destacaría sobre todo su disposición a entregar la vida por un ideal. Con esta idealización homérica, según esta interpretación, los héroes se convierten en modelos de universal validez.
La interpretación que aquí defiendo se orienta en sentido contrario. La disposición a entregar la vida, que es ciertamente la quintaesencia del comportamiento heroico y objeto de tratamiento admirativo tanto desde una perspectiva martirológica cristiana como romántica, no se nos presenta como modélica o ejemplar. Más bien, morir por un ideal, que es a la vez matar por él, es precisamente el blanco de la crítica dramática que pone en juego el poema, exponiendo sus justificaciones a la luz de sus nefastos efectos. Lejos de ennoblecer el modelo heroico, la Ilíada se dirige a socavarlo, poniendo en cuestión de la manera más radical ese tipo especial de acción que da sentido a la vida, y a la muerte del héroe: entregarse a la acción de matar, y morir, con el fin de “gozar” del honor y de la inmortalidad de la “gloria imperecedera”. El poema nos muestra con sobrada insistencia los efectos destructivos y deshumanizadores de esa especial acción mortífera que tradicionalmente concede excelencia al héroe. Pero no se detiene aquí. La trama misma de la Ilíada, y esto es lo esencial, es una elaborada expresión de este cuestionamiento del comportamiento heroico. La historia de Aquiles es la historia del proceso de transformación que lleva al héroe por antonomasia a despegarse de los inmoladores valores heroicos y a replantearse la valoración de la vida y de la muerte desde una perspectiva que trasciende los límites heroicos y grupales, y apunta a la solidaridad y a una humanidad compartida de naturaleza universal. Perspectiva que se asienta sobre el sentimiento y la conciencia de la debilidad radical y la limitación comunes a todos los hombres. Así se expresa una nueva concepción de la condición humana que invalida los fundamentos de la conducta heroica y, por extensión, de toda construcción cultural (oposición amigo/enemigo, afirmación de la seguridad en la fuerza, dignificación de la muerte en combate, vigencia de la venganza…) que legitime la acción de matar o morir por una Causa.
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Epílogo
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De querer ser como un dios a reconocerse limitada y vulnerablemente humano. Éste es el proceso de transformación de Aquiles que nos cuenta la Ilíada. La gran enseñanza del poema es este viaje transformador en el que Aquiles, a través de dolor, muerte y lágrimas, pasa de la “lógica” del modelo heroico que los produce (hybris de parecerse a los dioses-rebelión frente a la finitud en aras de la inmortalidad-desprecio de la vida-insensibilidad frente al sufrimiento ajeno) a la “lógica” de la finitud humana (aceptación de la finitud-valoración de la vida-sensibilidad ante el sufrimiento ajeno). Despejada de ideales absolutos o sublimaciones nebulosas que ofrezcan “completarla”, esta nueva visión de la vida humana inaugura una ética de alcance indiscutiblemente universal.
Espero haber mostrado en este ensayo, con respeto riguroso al propio texto, que éste es el sentido que mejor encaja con la trama narrativa misma del poema, con la propia concatenación de la acción dramática (el criterio clave que apuntaba Aristóteles en su Poética), que además se ve reforzado por múltiples elementos particulares que señalan en esta dirección. Mucho es lo que hay que ignorar u omitir de la Ilíada para defender que este poema supone una mera exaltación de los valores heroicos, como influyentes interpretaciones tradicionalmente defienden. La Ilíada no es la revalidación de la moral heroica sino, por el contrario, la obra consciente y elaborada de un pensador movido por la dolorosa toma de conciencia de los efectos destructivos y deshumanizadores de dicha moral.
Pero Homero, es preciso subrayarlo, no se hace vanas ilusiones. Su visión y sensibilidad no es complaciente sino trágica. Tras el episodio con el que termina su historia nos hace saber que la guerra continuará. Sabe que la guerra, las guerras, continuarán. Homero no es un utopista; más que considerar que “otro mundo es posible”, subraya la contradicción entre una perenne tendencia de los humanos a absolutizar sus instintos, a jugar a ser dioses, y lo que la reflexión serena sobre la vida y sobre la historia de los hombres nos señala. Homero no pretende un desenlace feliz, ni de su obra ni de la condición humana. Pero no le resta grandeza a la Ilíada el que no muestre triunfantes los valores que promociona. Su profunda conciencia de la realidad y del sufrimiento humanos le impide a Homero teñir su humanidad de un optimismo engañoso.
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Juan Carlos Rodríguez Delgado
El desarme de la cultura
Una lectura de la Ilíada
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Omero, Iliade
Giangiacomo Feltrinelli Editore.
Milano, 2004
ISBN: 8807490315
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Homer, Ilíada
Traducció d’Anna Casassas
Les Ales Esteses, 185
RBA – La Magrana. Barcelona, 2005
ISBN: 9788478713615
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El desarme de la cultura
Una lectura de la Ilíada
Katz Editores. Madrid, 2010
ISBN: 9788492946198
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