Arxius
La Ilíada, l’Odissea, el Gènesi i l’Èxode. Piero Boitani
.
.
.
L’Iliade e l’Odissea, la Genesi e l’Esodo sono le pietre di fondazione della nostra letteratura e del nostro intero immaginario. L’Odissea e la Bibbia, in particolare, hanno un disegno in buona parte parallelo: la prima è la storia di un uomo che vuole tornare a casa dopo una lunga assenza e ricongiungersi a sua moglie, suo figlio, suo padre, e che è destinato a riprendere il viaggio per trovare una terra che non conosce il mare. La seconda è la storia di un popolo che, caduto in schiavitù ed esiliato, cerca di tornare nel paese dei padri, nella Terra Promessa, e che, una volta ritornato, è costretto a riprendere più volte il cammino: esiliato di nuovo, gli viene promesso un altro ritorno. L’Odissea può divenire viaggio di esplorazione e di scoperta, erranza di ricerca e persino di perdizione. Genesi ed Esodo sono l’errare alla ricerca di Dio, l’emigrazione, la diaspora, lo smarrimento e la caduta perenni, costante rinascita e rinnovata aspirazione al compimento.
L’ombra di un parallelo fra Odissea ed Esodo viene intravista già da uno dei primi Padri della Chiesa cristiana, Clemente di Alessandria, quando, forse seguendo un’esegesi già stabilita negli ambienti giudaico-ellenistici della sua città, descrive nel Protreptikos — l’Esortazione ai Greci — il popolo di Israele errante nel deserto a causa della propria mancanza di fede e, subito dopo, il «vecchio di Itaca» vagabondo per il mare, desideroso non dell’immortalità, della verità, della Luce della patria celeste, ma soltanto di vedere il fumo della sua terra. E se Clemente intuisce il rapporto quasi figurale fra una vicenda e l’altra sulla soglia tra la fine di un’epoca e l’inizio di un’altra, più vicino a noi, ancora sul limitare tra due ere, James Joyce ha intrecciato nel suo Ulisse l’Odissea e la Bibbia, il ritorno ad Itaca e l’Esodo, in maniera vivificante e “comica” nel più alto senso della parola. […]
.
Piero Boitani
Esodi e Odissee (p. 110).
.
.
.
.
Esodi e Odissee
Liguori Editore. Napoli, 2004
ISBN: 9788820737351
.
.
.
.
Khalil Hawi. El mariner i el dervix
.
.
The syncretism of Late Antiquity is typical of the post-modern shadow of Ulysses. That of the Lebanese Khalil Hawi is a singular, bitter, apocalyptic concretion of Gilgamesh, Ulysses and Sindbad, Coleridge and Eliot, a ‘sailor’ who wanders through the unconscious, sacrifices his soul for knowledge, despairs of science, and sets sail towards the primordial banks of the Ganges where an ancient dervish foresees his death, the flames and ashes to fall on the coasts of the West, the emergence of boiling mud from a scowling earth, a new Athens or Rome. […]
For ‘syncretism’ do not read painless absorption, acquiescence in another’s models: read, as the Jews were forced to read, anguish, culture clash, and a tearing divide in life and history. Ulysses, as Dante understood once and for all, is no statue, but a flame, the tongue of fire which tells of a Greek condemned to death by the god of another’s culture. Ulysses is the West and he who knows it: attracted by it, his struggle is with himself.
Piero Boitani
The shadow of Ulysses beyond 2001
Comparative Criticism. Myth and mythologies. Vol. 21, pp. 3-19
Cambridge University Press 1999
.
.
.
.
.
The Mariner and the Dervish
He sailed with Ulysses into the unknown, and with Faust he sacrificed his soul for the sake of knowledge. In the end, he despaired of modern science, rejecting it with Huxley and setting sail for the banks of the Ganges—the origin of Sufism. He saw nothing but dead clay here; nothing but hot clay there. Clay upon clay.
After suffering the swirl of storm and sea
and delusive light across darkened path,
and the expanse of the unknown
unfolding the unknown,
unveiling enveloping death,
unfurling blue shrouds for the drowned,
and opening the jaws of caves gowned
in the glow of flames on the horizon’s edge;
after tricking him, the wicked tempest
tossed him into the ancient East.
He set ashore in a fabled land
of which storytellers speak—
a tired tavern, legends and lore,
prayer and palm trees of partial shade
sheepishly murmuring in this humid,
uninhabited waste, wearing away
all feeling in feverish nerves,
muddling all memory and muffling
the remote, recurring echo—
the call of distant ports.
O if only the naked, ascetic dervishes would help him!
Dizzy from the dance of recitation and remembrance,
they transcended life.
Circles upon circles
around the ancient dervish,
his legs taking root in mud, motionless,
absorbing the excrement of the aging earth.
In the folds of his skin sprout parasitic plants,
old moss and thick-growing ivy.
Absent of feeling, he will fail to awaken,
and his share of the season’s fertile harvest
coursing through his veins
is but a rag that plants elegant beauty
on his old and tattered skin.
—Come, tell of the treasures
that have driven your eyes down
into the dark depths of the unknown.
—Crouching in this place
a thousand times, a thousand years,
crouching on the banks of the ancient Ganges,
the roads of the earth, however distant,
however far, all end at my doorstep,
and in my hut rest the twins:
God and boundless time.
And I see—what is it I see?
Death, ashes, flames!
descending upon the western shore.
Gaze out and you, too, shall see!
Or can you not bear the sight?
That frothing ghoul in boiling clay,
the feverish, forsaken ports,
and look! the pregnant earth writhing,
suffering, sending forth from the clay,
now and again, an Athens or a Rome!
And then the glow of fever rattling
in a barren chest, leaving behind a blister
and ashes from the refuse of time.
That suffering ghoul,
I see him as but a child
born of transient time,
a shriveled hand weaving a shroud
from his unraveling nerves.
Death is near, and you see me
crouching in this place
a thousand times, a thousand years,
crouching on the banks of the ancient Ganges,
and in my hut rest the twins:
God and boundless time.
Or do you believe yourself burdened
by the sight you cannot bear?
Leave me! The lighthouses
charting my course have died in my eyes.
Leave me to go where I do not know.
The distant ports will not deceive me:
some are feverish clay,
some are lifeless clay.
O how often have I burned in that boiling clay!
O how often have I died in that dying clay!
The distant ports will not deceive me:
leave me to the sea, to the wind, to death
unfurling blue shrouds for the drowned,
a mariner, in whose eyes
the lighthouses have extinguished.
Dead is that light in his eyes, dead:
heroism shall not spare him,
nor the humility of prayer.
.

Khalil Hawi (1919 – 1982)
Khalil Hawi
Translation: Josh Moore
Font: www.indianajosh.com
Il marinaio e il derviscio
Con Ulisse vagò nell’inconscio,
con Faust immolò la sua anima
a causa della conoscenza.
Infine, nella nostra epoca,
egli disperò della scienza.
Estraniatosi come Huxley,
fece vela per le rive del Gange,
sorgente madre del sufismo.
Là egli non vide altro
che creta senza vita,
qui solo caldo fango:
pur sempre e solo fango.
Dopo aver avuto a che fare
col mal di mare, con lumi
devianti dalla rotta oscurata,
con ignote distese dilaganti
ad accerchiarlo da ogni lato
fuori dall’inconscio, dalla morte,
la quale sciorina sudari
azzurri per l’annegato,
spalanca fauci cavernose
in vacui orizzonti, rivestiti
di un bagliore d’incendio,
eccolo infine proiettato
dall’ingannevole gioco dei venti
sui lidi dell’antico Oriente.
Così approdò in una terra
di cui narrano in oziose taverne
i cantastorie, miti, preghiere,
il mormorio svagato delle palme
dalle fievoli ombre.
Ivi uno sciabordio acquoso
intorpidisce ogni sensazione
lungo i nervi infiammati,
e attutisce ogni ricordo
a un’eco ripetuta e distante
come il richiamo di porti remoti.
Potessero almeno aiutarlo
i nudi, ascetici dervisci!
Rutilanti nei vortici
dei loro circoli di rimembranza,
essi ormai oltrepassarono
i confini dell’esistenza.
Circoli e ancora circoli
intorno a un vecchio derviscio:
le gambe radicate nella melma,
assorbe linfa dalla grama terra.
Se ne sta immoto insensibile,
e nelle pieghe della sua pelle
germogliano piante parassite:
muschio stagionato dal tempo,
edera che infittisce crescendo.
Egli mai più si sveglierà,
ma quel po’ di fertile stagione
che gli scorre ancora nelle vene
riveste di bellezza e eleganza
la sua vecchia pelle screpolata.
“Suvvia, svelami i tesori
che attrassero il tuo sguardo
nel profondo dell’inconscio”.
“Da mille anni accovacciato
in questo ricorrente sciabordio
sulla riva primordiale del Gange,
le vie del mondo, benché distante,
tutte si arrestano alla mia porta,
e nella mia capanna dimorano
divinità ed eternità gemelle.
Tu vuoi sapere che cosa vedo?
Morte, cenere e fiamme,
abbattersi sui lidi d’Occidente.
Osserva tu stesso e vedrai:
o non puoi tollerare la vista
di quel mostro in fermento?
Anche il fango ribolle di febbre,
i porti sono battuti dalla febbre,
ma ecco: la terra è gravida,
soffre il travaglio e le doglie.
E’ così che erompe alla luce
ogni tanto un’Atene o una Roma,
fra scorie combuste del tempo.
Così in un petto devastato
a una febbre che divampa
subentrano strani tumori.
Io in quel demone sofferente
non vedo altro che un figlio
generato dall’attimo fuggente,
e una mano dai peli grigi
già ordisce coi suoi nervi
un sudario per la sua morte.
Ma tu vedi me accovacciato
in questo perenne sciabordio
da mille anni per mille volte
sulla riva primordiale del Gange.
E nella mia capanna dimorano
divinità e eternità gemelle”.
“Non ti senti dunque oberato
da una visione insostenibile?”.
“Lasciami, che io prosegua
il cammino nell’inconscio.
La luce dei fari è spenta
sulla mia rotta ai miei occhi.
Non mi attira più ormai
la lusinga di porti lontani,
scavati nel fango febbrile,
di altri nel fango senza vita.
Quante volte io bruciai
nella febbre di quel fango,
quante volte sono morto
in quel fango inanimato!
Ormai quei porti remoti
non mi traggono in inganno.
Lasciami al mare, al vento,
e alla morte, che sciorina
sudari azzurri per l’annegato:
un marinaio, ai cui occhi
è spenta la luce dei fari.
Spenta la luce sulla sua rotta,
gesti eroici non lo salveranno,
né l’umiltà della preghiera”.
Khalil Hawi
Traduzione di Pino Blasone
.
.
.
.
Els focs dels troians a la planúria i les estrelles. «Il grande racconto delle stelle», de Piero Boitani
.
.
.
Piero Boitani, que tantes aportacions ha fet en el camp de la recepció clàssica homèrica (només cal citar els seus “L’ombra di Ulisse” i “Sulle orme d’Ulisse“), ens obre, amb el seu “Il grande racconto delle estelle” (2012), l’univers, mai millor dit, de la volta celeste, dels estels, i el seu tractament al llarg dels temps, en les diferents cultures i civilitzacions, en la literatura i en l’art.
Una veritable joia de llibre, de lectura apassionant i edició acurada, que s’inicia, com no podia ser d’altra manera, amb la Ilíada:
.
.
.
.
.
.
I Troiani stanno per vincere la Guerra. Assediati, portano ora la battaglia, soto la guida di Ettore, nella pianura fra la città e il mare, quindi, verso la riva dove i Greci hanno tirato a secco le navi. Invano questi ultimi costruiscono un muro a difesa de loro accampamento. All’alba, la battaglia, dopo una breve tregua per la sepoltura dei morti, riprende furibonda. Quando il sole giunge «alla metà del cielo», Zeus solleva la sua bilancia d’oro tenendola al centro, ed ecco le sorti degli Achei inclinano verso il basso, mentre quelle dei Troiani s’alzano “nel cielo spazioso”. Il più grande degli dèi tuona dalla cima dell’Ida e scaglia un lampo di fuoco sull’esercito greco. Agamennone, Idomeneo, i due Aiaci non riescono più a rimaner saldi, persino Ulisse se la dà a gambe verso le navi. Per un po’, resiste Diomede, poi anche lui è costretto da Zeus alla ritirata.
.
.
Els Troians són a punt de guanyar la Guerra. Assetjats, duen ara la batalla, sota la guia d’Hèctor, a la planúria entre la ciutat i el mar, i d’aquí cap a la riba on els Grecs han avarat les naus. En va aquests darrers construeixen un mur de defensa del seu campament. A l’alba, la batalla, després d’una breu treva per a la sepultura dels morts, reprèn furibunda. Quan el sol arriba “al bell mig del cel”, Zeus alça la seva balança d’or, prenent-la pel mig, i heus ací que la sort dels Aqueus s’inclina cap avall, mentre que la dels Troians s’alça “cap al cel espaiós”. El més gran dels déus retrona des del cim de l’Ida i llença un llamp de foc sobre l’exèrcit grec. Agamèmnon, Idomeneu i els dos Aiants ja no són capaços de resistir, i fins i tot Ulisses fuig a gambades cap a les naus. Per poca estona resisteix Diomedes, i fins i tot ell és obligat per Zeus a la retirada.
Hèctor enfureix, conduint els Troians fins sota el tancat grec. Hera i Atena intenten de socórrer els Grecs, però Zeus, airat, les atura, mostrant per primera vegada el pla que té en ment: fer de manera que Patrocle, l’amic d’Aquil·les, entri en batalla i resulti mort per Hèctor, de tal manera que Aquil·les, abandonant la seva ira, retorni al camp de batalla i, eliminant Hèctor, doni el tomb definitu a la Guerra. Els Troians avancen encara, però el sol es capbussa a l’Oceà, amb el seu raig esplendent, «portant fosca nit sobre els camps fecunds». Hèctor, aleshores, aplega els seus homes, i s’hi adreça amb un discurs: cal obeïr “la fosca nit” (de nit, segons l’ethos de la Ilíada, no es combat), preparar el sopar fent portar viandes i vi de Troia, encendre focs per impedir que els Grecs s’embarquin d’amagat. Al matí, per tant, l’atac reprendrà i serà decisiu. Els Troians aclamen, treuen els arreus als cavalls, fan portar pans, vaques, ovelles i vi de la ciutat, recullen llenya, encenen els focs, rosteixen els animals.
Restaren, els Troians, “tota la nit al llarg dels senders de guerra / forjant grans esperances”. Molts focs foren encesos, canten els darrers versos del llibre VIII de la Ilíada:
Com quan els estels en el cel, entorn de la lluna esplendent,
apareixen en ple fulgor, mentre l’aire és sense vent;
i es perfilen totes les penyes i els cims dels colls i les valls;
i un espai immens s’obre sota la volta del cel,
i es veuen tots els estels, i se li omple de joia el cor al pastor:
talment les fogueres resplendien entre les naus i el curs del Xantos
quan els Troians encengueren els focs davant la murada d’Ílion.
És la primera imatge que dels estels ens ofereix la literatura occidental, entre el segle IX i el VIII a.C, fa tres mil anys. I és un símil extraordinari. Perquè Homer s’hagués pogut limitar a dir, funcionalment (com fa la Bíblia, com tan tants d’altres): els focs eran tants com estrelles hi ha al cel. Per contra, dissenya un Nocturn incomparable, que s’obre poc a poc vers l’infinit. Primer els estels fulgents entorn de la lluna lluminosa, després l’aire sense vent, aleshores els perfils que es dibuixen: un horitzó, un confí: penyes, cims i valls. Un salt, aleshores: aquell aire esdevé «immens», infinit («indicible», segons el significat de l’original), i retornen encara els estels, tots visibles, i compareix de sobte un espectador inesperat: un pastor que amb la Guerra té ben poc a fer. Ell frueix en la seva ànima: perquè, imaginem, contempla l’espectacle de la volta celeste i en gaudeix.
La presència de l’observador introdueix en el símil una percepció protoestètica, la joia de la bellesa. Més aviat, del sublim, perque l’infinit més enllà de les roques i de les valls, i l’inefabilitat, són trets típics no del bell, sinó, com segles després observarà l’Anònim, propis del Sublim. Que, precisament, eleva el cor, l’allarga, el fa vibrar. S’entén per què aquesta imatge havia fascinat Leopardi des de l’adolescència: la menciona en els Ricordi, la cita en el Discorso di un italiano sulla poesia romantica, n’està inspirat a Saffo, a la Sera del dì festa, en el Canto notturno di un pastore errante dell’Asia. Però què hi fa a la Ilíada, el poema de la Guerra i de la força? Serveix, s’entén, per dissenyar un cosmos on no regna el conflicte sinó l’harmonia. Potser lliga amb aquell “cel espaiós” cap al que, just a l’inici d’aquest llibre VIII, s’alçava la sort dels Troians en la balança de Zeus: i que, per demés, feia alimentar als Troians “grans esperances”.
Potser, però, hi ha més. Provem d’arriscar una hipòtesi poc ortodoxa. Si Hèctor, desafiant els costums, hagués ordenat prosseguir l’atac, hagués probablement pres el camp enemic. Aleshores el seu hagués estat un Blitzkrieg realment irresistible. Potser els Troians haguéssin guanyat la guerra. Però Hèctor s’atura. No només perquè de nit no es combat. No només perquè Troia està destinada a perdre aquell primeríssim conflicte mundial. Sinó potser, sobretot, perquè Homer, obeïnt a una llei més gran encara, aquella de la poesia, ha de cantar la nit i els estels i el cel infinit: el bell, el sublim. El ancians d’Ílion, quan veuen Helena aparèixer sobre la muralla, queden corpresos per la seva bellesa suprema i diuen: «Certament no hi ha raó de blasme, si per aquesta dona fa temps / que Toians i Aqueus de belles gamberes suporten dolors: / malauradament el seu aspecte és semblant al de les dees immortals». Si nosaltres fóssim vells i savis com ells hauríem de reconèixer que —juntament amb el Fat, en els plans de Zeus, en les intervencions de la divinitat i en les accions i els errors dels homes—la bellesa del cosmos, dels estels, de la lluna, dels perfils de la crosta terrestre, tenen un paper essencial en la desfeta de Troia. «Certament no hi ha motiu de blasme», hauríem de dir, «si per tal visió a la fi els Troians / veieren Ílion destruïda, reduïda a cendres i brases: / malauradament té un aspecte semblant a la divinitat immortal». I segur que estarà d’acord amb nosaltres el pastor.
Perquè nosaltres puguem mirar els estels, Troia perd la Guerra. Potser val la pena. La visió del cosmos té una importància fonamental a la Ilíada. Quan, mort Parocle, Aquil·les decideix retornar a la batalla, li calen noves armes, perquè les velles les hi ha pres Hèctor al despullar el cadàver de Patrocle. En el llibre XVIII de la Ilíada, llavors, la mare d’Aquil·les, Tetis, implora a Hefest que les forgi. El ferrer dels déus es posa mans a l’obra i produeix tot seguit un escut admirable. En el qual, com si fos un espill del món, hi són dramàticament representades dues ciutats (una, florida, en pau, on s’hi celebra un judici; una altra, assetjada, capturada en els territoris de la guerra), i el camp, amb els seus ramats, cavallades i vacades, la vinya, músics i dansaires. Tot a l’entorn, al llarg de l’orla externa de la manufactura, com encerclant aquesta Terra humana, Hefest hi dibuixa el gran corrent del riu Oceà. Però la primera cosa que el déu esculpeix en l’escut d’Aquil·les és el cosmos:
Hi esculpí la terra i el cel i el mar,
el sol que mai no s’atenua, la lluna en ple esplendor,
i totes les constel·lacions, que el cel duu per corona,
les Plèiades, les Híades, la força d’Orió
i l’Óssa, dita també el Carro per sobrenom,
que gira sobre ella mateixa mirant Orió,
i és l’única que no es submergeix en les aigües de l’Oceà.
[…]
Piero Boitani
Il grande racconto delle stelle
Traduït de l’original italià
[La traducció de les cites de la Ilíada són traduccions de la traducció italiana de G. Cerri, que fa servir Boitani per a aquestes citacions.]
.
.
.
.
.
.
.
Mentre somreia l’Aurora i el sagrat dia anava creixent, els trets d’ambdós bàndols no fallaven mai, i les tropes eren delmades. Mes, quan Hèlios hagué guanyat el punt culminant del cel, el Pare dels déus va estendre les àuries balances i en elles posà els dos genis de l’amarga mort: en un plat, el dels troians domadors de poltres, i en l’altre el dels aqueus, vestits de bronze, i, sostenint-les pel mig, va fer la pesada: el dia fatal dels aqueus va inclinar-se, i llur geni de la mort s’assentà en la terra, que ens dóna aliments, però el dels troians va enlairar-se fins a l’ample cel. I Zeus, tronant llargament des de l’Ida, llançà un esclat ardent al mig de les hosts aquees; i els aqueus, en veure’l, es van esglaiar, i, a tots, els prengué l’esblaimada paüra.
Ilíada, VIII, 67-77
Traducció de Montserrat Ros.
.
.
La claror esplendorosa del sol va colgar-se en l’Ocèan i arrossegà la foscor de la nit sobre els camps, que ens regalen el gra. No va plaure als troians que el dia morís; mes, en canvi, els aqueus acolliren contents la nit tenebrosa, desitjada per ells mil vegades.
I el preclar Hèctor convocà llavors els troians a una junta, lluny de les naus, en un indret vora el riu turbulent on no hi havia cadàvers. Els guerrers davallaren dels carros i van escoltar les paraules que Hèctor, dilecte de Zeus, els digué en l’ajust, duent al puny la pica d’onze colzades, amb la punta de bronze que lluïa al capdamunt fermada amb una anella d’or. Hèctor, recalcant-s’hi, parlà entre els troians: «Escolteu-me, troians i dàrdans, i també els qui sou aliats nostres! Ah!, si n’estava, jo, de segur que regressaria a la ventosa Ílion després d’haver anihilat les naus i tots els aqueus; però la nit ja ha caigut, i això és el que salva més els argius i llurs naus prop del ribatge on rompen les onades. Obeïm, doncs, la negra nit i aprestem el sopar; desenganxeu dels carros els cavalls, de llustroses crins, i doneu-los el pinso; i, de la ciutat, dueu, amb llestesa, bous i grasses ovelles i, així mateix, proveïu-vos de vi, que endolceix el cor; i porteu pa de les vostres cases i bons feixos de llenya per tal que tota la nit, fins que apunti l’Aurora, filla del matí, cremin moltes fogueres, i llur resplendor pugi fins al cel, no fos cas que els aqueus, d’abundosos cabells, emprenguessin de nit la fugida per l’ample dors del mar. No permetem que s’enfilin, segurs, a les seves naus sense haver de lluitar. […]
Ilíada, VIII, 485 – 514
Traducció de Montserrat Ros.
.
.
Això digué Hèctor davant els troians, i ells el van aclamar. Desenganxaren del jou els cavalls, amarats de suor, i els van fermar amb corretges, cadascun al seu carro; i després s’apressaren a emmenar de la ciutat bous i grasses ovelles i es van proveir de vi, que endolceix el cor, i també van portar pa de les cases i bons feixos de llenya. I els vents enlairaren, de la plana al cel, l’agradable fumera del greix.
Els troians, orgullosos, passaren la nit acampats en el pont de la guerra; i les fogueres que havien encès eren moltes. Així com, en una nit de calma, lluen els estels per tot el firmament, al voltant de la lluna clara, i hom pot distingir els punts de guaita, els alts promontoris i també les valls, i l’immens èter, esqueixant-se del cel, fa visible tota l’estelada, i el pastor sent que el cor se li alegra; en tan gran nombre eren les fogueres dels guerrers troians que es veien enceses entre les naus i el corrent del Xantos, davant mateix d’Ílion. Mil fogueres cremaven a la plana i, prop de cada una, vora el foc flamejant, hi havia asseguts cinquanta homes. I, drets, a tocar del seu carro, els cavalls rosegaven ordi blanc i elpelta tot esperant l’Aurora de magnífic tron.
Ilíada, VIII, 542-567
Traducció de Montserrat Ros.
.
.
.
.
.
Il grande racconto delle stelle
Società editrice il Mulino. Bologna, 2012
ISBN: 9788815240248
.
.
.
Ilíada. Vol. II
Traducció de Montserrat Ros
Fundació Bernat Metge. Barcelona, 2007
ISBN: 8472258785
.
.
–
Joseph Conrad i Ulisses. The Mirror of the Sea
.
.
.
.
Hi ha un moment emblemàtic que marca l’entrada d’Ulisses en l’escena del segle XX europeu. És el moment en que Joseph Conrad —un polonès que, nascut a Ucraïna, va viure a Rússia, feu els seus estudis a Cracòvia, emigrà a França i s’embarcà per primera vegada en un vaixell francès, passant, llavors, a la marina mercant i a la nacionalitat britànica— publica en anglès (llengua que escull aviat com a pròpia i en la que es consolidarà com un dels més grans escriptors del seu temps) un llibre de memòries i impressions dedicat a l’experiència fonamental de la seva vida i la Musa principal de la seva narrativa: el mar.
Aquest llibre, compost en la seva major part d’articles apareguts anteriorment en diaris i revistes, es publica el 1906 (per tant, bastant abans que l’Ulisses de Joyce i que les composicions «ulissíaques» d’Ezra Pound) amb el títol de The Mirror of the Sea (El mirall del mar). En ell, com ell mateix afirma a la nota que precedeix l’edició de 1919, mira de «revelar en tota la seva nuesa, amb la sinceritat d’una última confessió, l’essència de la seva relació personal amb el mar. Iniciada misteriosament, com totes les grans passions que els Déus inescrutables inspiren als mortals, seguí després, irracional i invencible, sobrevisquent a la tentació de desencant i desil·lusió que s’agotzona en cada jornada d’una vida fatigada per a, finalment, plena dels delits i les penes de l’amor, enfrontar-s’hi amb exultació i amb els ulls oberts, sense amargor ni pena, des de la primera fins la darrera hora”.
.
Piero Boitani
L’ombra di Ulisse
Versió catalana a partir de la traducció
al castellà de Bernardo Moreno Carrillo
.
.
.

Józef Teodor Konrad Korzeniowski, conegut com a
Joseph Conrad
(Berdyczów, aleshores Polònia, actualment Ucraïna, 3 de desembre de 1857 – Bishopsbourne, Anglaterra, 3 d’agost de 1924)
.
.
.
.
XXXVIII.
.
.Dichoso aquel que, como Ulises, ha hecho un viaje aventurero; y para viajes aventureros no hay mar como el Mediterráneo, el mar interior que los antiguos encontraban tan inmenso y tan lleno de prodigios, Y, en efecto, era terrible y maravilloso; pues no somos sino nosotros mismos, regidos por la audacia de nuestras mentes y los estremecimientos de nuestros corazones, los artesanos únicos de cuanto portentoso y novelesco hay en el mundo.Era a los marineros mediterráneos a quienes sirenas de rubias cabelleras cantaban entre las negras rocas efervescentes de blanca espuma, y a quienes voces misteriosas hablaban en la oscuridad sobre las movedizas olas: voces amenazadoras, seductoras o proféticas….Happy he who, like Ulysses, has made an adventurous voyage; and there is no such sea for adventurous voyages as the Mediterranean—the inland sea which the ancients looked upon as so vast and so full of wonders. And, indeed, it was terrible and wonderful; for it is we alone who, swayed by the audacity of our minds and the tremors of our hearts, are the sole artisans of all the wonder and romance of the world.
It was for the Mediterranean sailors that fair-haired sirens sang among the black rocks seething in white foam and mysterious voices spoke in the darkness above the moving wave—voices menacing, seductive, or prophetic, like that voice heard at the beginning of the Christian era by the master of an African vessel in the Gulf of Syrta, whose calm nights are full of strange murmurs and flitting shadows. It called him by name, bidding him go and tell all men that the great god Pan was dead. But the great legend of the Mediterranean, the legend of traditional song and grave history, lives, fascinating and immortal, in our minds.
The dark and fearful sea of the subtle Ulysses’ wanderings, agitated by the wrath of Olympian gods, harbouring on its isles the fury of strange monsters and the wiles of strange women; the highway of heroes and sages, of warriors, pirates, and saints; the workaday sea of Carthaginian merchants and the pleasure lake of the Roman Caesars, claims the veneration of every seaman as the historical home of that spirit of open defiance against the great waters of the earth which is the very soul of his calling. Issuing thence to the west and south, as a youth leaves the shelter of his parental house, this spirit found the way to the Indies, discovered the coasts of a new continent, and traversed at last the immensity of the great Pacific, rich in groups of islands remote and mysterious like the constellations of the sky.
The first impulse of navigation took its visible form in that tideless basin freed from hidden shoals and treacherous currents, as if in tender regard for the infancy of the art. The steep shores of the Mediterranean favoured the beginners in one of humanity’s most daring enterprises, and the enchanting inland sea of classic adventure has led mankind gently from headland to headland, from bay to bay, from island to island, out into the promise of world-wide oceans beyond the Pillars of Hercules.
.
.XXXIX
.
.[…].La verdad era seguramente que, nada versado en las artes del sagaz griego, el engañador de dioses, el amante de extrañas mujeres, el evocador de las sanguinarias sombras del averno, aún anhelaba el comienzo de mi propia y oscura Odisea, que, como correspondía a un moderno, habría de desplegar sus maravillas y terrores más allá de las Columnas de Hércules. ….The truth must have been that, all unversed in the arts of the wily Greek, the deceiver of gods, the lover of strange women, the evoker of bloodthirsty shades, I yet longed for the beginning of my own obscure Odyssey, which, as was proper for a modern, should unroll its wonders and terrors beyond the Pillars of Hercules. The disdainful ocean did not open wide to swallow up my audacity, though the ship, the ridiculous and ancientgalère of my folly, the old, weary, disenchanted sugar-waggon, seemed extremely disposed to open out and swallow up as much salt water as she could hold. This, if less grandiose, would have been as final a catastrophe.
But no catastrophe occurred. I lived to watch on a strange shore a black and youthful Nausicaa, with a joyous train of attendant maidens, carrying baskets of linen to a clear stream overhung by the heads of slender palm-trees. The vivid colours of their draped raiment and the gold of their earrings invested with a barbaric and regal magnificence their figures, stepping out freely in a shower of broken sunshine. The whiteness of their teeth was still more dazzling than the splendour of jewels at their ears. The shaded side of the ravine gleamed with their smiles. They were as unabashed as so many princesses, but, alas! not one of them was the daughter of a jet-black sovereign. Such was my abominable luck in being born by the mere hair’s breadth of twenty-five centuries too late into a world where kings have been growing scarce with scandalous rapidity, while the few who remain have adopted the uninteresting manners and customs of simple millionaires. Obviously it was a vain hope in 187- to see the ladies of a royal household walk in chequered sunshine, with baskets of linen on their heads, to the banks of a clear stream overhung by the starry fronds of palm-trees. It was a vain hope. If I did not ask myself whether, limited by such discouraging impossibilities, life were still worth living, it was only because I had then before me several other pressing questions, some of which have remained unanswered to this day. The resonant, laughing voices of these gorgeous maidens scared away the multitude of humming-birds, whose delicate wings wreathed with the mist of their vibration the tops of flowering bushes.
No, they were not princesses. Their unrestrained laughter filling the hot, fern-clad ravine had a soulless limpidity, as of wild, inhuman dwellers in tropical woodlands. Following the example of certain prudent travellers, I withdrew unseen—and returned, not much wiser, to the Mediterranean, the sea of classic adventures.
.
.
.
.
Ja al final del seu llibre, Joseph Conrad ens refereix la història d’un vaixell, El Tremolino (és a dir, el “trèmol”, el “pollancre trèmol”, si bé Conrad no sembla identificar el nom del vaixell amb el de l’arbre, i el tradueix com el “tremolós”), de la seva tripulació i del seu capità, Dominic Cervoni. Aquest darrer, Cervoni, ens el descriu Conrad com “Astut i sense escrúpols, podria haver rivalitzat en recursos amb l’infortunat fill de Laertes i Anticlea. Si no oposava la seva embarcació i la seva audàcia nogensmenys que als déus, era només perquè els déus olímpics estan morts. Per descomptat no hi havia cap dona que pogués atemorir-lo. Un gegant amb un sol ull no hauria tingut ni la més remota possibilitat contra Dominic Cervoni, de Còrsega, no d’Ítaca; […]. Parlava el català, l’italià de Còrsega i el francès de la Provença amb idèntica soltura i naturalitat.”
Cervoni i la tripulació del Tremolino es mouen en el marc de les intrigues i trifulques de la guerra carlina (som al 1875), fent contraban d’armes i municions en benefici dels carlins, a les costes catalanes.
L’episodi que posa fi als dies del Tremolino, i que en provoca el seu enfonsament per part del propi capità, es desenvolupa entre Barcelona i el Cap de Creus, on es propueix el naufragi. Cervoni, i la tripulació desembarquen amb un bot al Cap de Creus. El Capità fa peu a terra amb un dels rems del bot, i el clava a terra a la platja. Després d’explicar els detalls dels fets que han dut a la trista fi del Tremolino, el capità arrenca el rem de terra…
.
.
.
XLV
.
[…]
He pulled the oar out of the ground and helped me carefully down the slope. All the time he never once looked me in the face. He punted us over, then shouldered the oar again and waited till our men were at some distance before he offered me his arm. After we had gone a little way, the fishing hamlet we were making for came into view. Dominic stopped.
“Do you think you can make your way as far as the houses by yourself?” he asked me quietly.
“Yes, I think so. But why? Where are you going, Dominic?”
“Anywhere. What a question! Signorino, you are but little more than a boy to ask such a question of a man having this tale in his family. Ah! Traditore! What made me ever own that spawn of a hungry devil for our own blood! Thief, cheat, coward, liar—other men can deal with that. But I was his uncle, and so . . . I wish he had poisoned me—charogne! But this: that I, a confidential man and a Corsican, should have to ask your pardon for bringing on board your vessel, of which I was Padrone, a Cervoni, who has betrayed you—a traitor!—that is too much. It is too much. Well, I beg your pardon; and you may spit in Dominic’s face because a traitor of our blood taints us all. A theft may be made good between men, a lie may be set right, a death avenged, but what can one do to atone for a treachery like this? . . . Nothing.”
He turned and walked away from me along the bank of the stream, flourishing a vengeful arm and repeating to himself slowly, with savage emphasis: “Ah! Canaille! Canaille! Canaille!. . .” He left me there trembling with weakness and mute with awe. Unable to make a sound, I gazed after the strangely desolate figure of that seaman carrying an oar on his shoulder up a barren, rock-strewn ravine under the dreary leaden sky of Tremolino’s last day. Thus, walking deliberately, with his back to the sea, Dominic vanished from my sight.
With the quality of our desires, thoughts, and wonder proportioned to our infinite littleness, we measure even time itself by our own stature. Imprisoned in the house of personal illusions, thirty centuries in mankind’s history seem less to look back upon than thirty years of our own life. And Dominic Cervoni takes his place in my memory by the side of the legendary wanderer on the sea of marvels and terrors, by the side of the fatal and impious adventurer, to whom the evoked shade of the soothsayer predicted a journey inland with an oar on his shoulder, till he met men who had never set eyes on ships and oars. It seems to me I can see them side by side in the twilight of an arid land, the unfortunate possessors of the secret lore of the sea, bearing the emblem of their hard calling on their shoulders, surrounded by silent and curious men: even as I, too, having turned my back upon the sea, am bearing those few pages in the twilight, with the hope of finding in an inland valley the silent welcome of some patient listener.
.
Se volvió y, apartándose de mí, echó a andar por la orilla de la corriente, esgrimiendo un brazo vengativo y repitiendo lentamente para sí, con acerbo énfasis: «¡Ah! Canaille! Canaille! Canaille…!». Me dejó allí, temblando de debilidad y mudo de espanto. Incapaz de emitir un sonido, vi la figura extrañamente desolada de aquel marino que llevaba un remo al hombro alejarse por una quebrada yerma y pedregosa bajo el cielo apagado y plomizo del último día del Tremolino. Así, andando despaciosamente, la espalda vuelta al mar, Dominic desapareció de mi vista.
Con la cualidad de nuestros deseos, pensamientos y asombro proporcionados a nuestra infinita pequeñez, medimos hasta el mismo tiempo de acuerdo con nuestra propia magnitud. Encerrados en la morada de las ilusiones personales, treinta siglos de la historia de la humanidad parecen menos, al mirar hacia atrás, que treinta años de nuestra propia vida. Y Dominic Cervoni ocupa su lugar en mi memoria al lado del legendario vagabundo del mar de las maravillas y los terrores, al lado del fatal e impío aventurero, a quien la sombra evocada del adivino predijo un viaje interior con un remo al hombro, hasta que encontrara hombres que jamás hubieran contemplado barcos ni remos. Me parece poder verlos el uno junto al otro en el crepúsculo de una tierra árida, malhadados poseedores del saber secreto del mar, llevando el emblema de su dura vocación al hombro, rodeados de hombres silenciosos y curiosos: incluso ahora, cuando, habiéndole yo también vuelto la espalda al mar, alumbro estas pocas páginas en el crepúsculo, con la esperanza de encontrar en un valle interior la callada bienvenida de alguien paciente dispuesto a escuchar.
.
Joseph Conrad
The Mirror of the Sea
Fragments en castellà, versió de Javier Marías.
.
.
El espejo del mar. Recuerdos e impresiones
Prólogo de Juan Benet
Nota sobre el texto de Javier Marías
Nueva traducción de Javier Marías
Reino de Redonda. Barcelona, 2005
ISBN: 9788493365608
.
.
.
La sombra de Ulises
Historia, ciencia, sociedad, 318
Traducción de Bernardo Moreno Carrillo
Ediciones Península. Barcelona, 2001
ISBN: 9788483073896
.
.